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Il viaggio è emozione, ricerca e scoperta, speranza, illusione, partenza e arrivo, distacco, nostalgia, gioco, abbandono, irrequietezza, sogno, coraggio e paura, introspezione e spiritualità, fuga. Il viaggio tocca frontiere, paesaggi, percorsi, mete e alla fine di esso ritroviamo sempre noi stessi o frammenti di quello che eravamo alla partenza, perché un viaggio cambia e a volte stravolge anime ed esistenze, ottiche e saperi. Per Charles Baudelaire i veri viaggiatori partono per partire e basta, “cuori lievi, simili a palloncini che solo il caso muove eternamente. Dicono ‘andiamo’ e non sanno perché. I loro desideri hanno la forma delle nuvole.” Oppure, come immagina Marguerite Yourcenar, “Sembra esserci nell’uomo, come negli uccelli, un bisogno di migrazione, una vitale necessità di sentirsi altrove”.

Ciascuno ha un’idea e una percezione del viaggio del tutto soggettiva, ancorata a ciò che lo muove e ciò che si aspetta: in ogni valigia, zaino, borsone, c’è il mondo di ognuno di noi fatto dei nostri inseparabili oggetti e dal nostro essere. Guy de Maupassant definisce il viaggio come una porta attraverso la quale si esce dalla realtà, come per penetrare in una realtà inesplorata che sembra sogno, mentre Fernando Pessoa annuncia amaramente: “Desidero partire non verso le Indie impossibili o verso le grandi isole a Sud di tutto, ma verso un luogo qualsiasi, villaggio o eremo, che possegga la virtù di non essere questo luogo. Non voglio più vedere questi volti, queste abitudini e questi giorni.” E quando Voltaire dichiara “E’ ben difficile, in geografia come in morale, capire il mondo senza uscire di casa”, non fa altro che attribuire al concetto di viaggio l’essenzialità che merita.

Quando si parla di viaggio, l’immagine del grande e autentico viaggiatore moderno è legata inevitabilmente a Bruce Chatwin (Sheffield, 1940-Nizza,1989). Per questo singolare ‘cittadino del mondo’, il viaggio rappresenta diversivo, distrazione, fantasia, cambiamento di moda, cibo, amore e paesaggio. Ma soprattutto qualcosa di cui abbiamo bisogno come l’aria. Vita. La sua morte per Aids ha posto fine precocemente al suo continuo spostarsi e raggiungere angoli di mondo ancora intatti, popoli dai tratti primitivi, paesaggi che non troviamo solo nei suoi libri ma anche nelle sue riprese fotografiche di una bellezza a volte commovente, altre di una forza implacabile. Immagini che rappresentano angoli sperduti della Patagonia, dell’Afghanistan, del Nepal e della Muritania ma anche della Provenza, la Russia e più rassicuranti angoli d’Europa e America. Dai suoi ricordi sbucano venditori di carne di Herat, capre Kirghise, eremi himalayani, chiese abbandonate dello Wyoming, monasteri del Monte Athos, mulini a vento dell’East Anglia, pittogrammi sahariani, tucul del Mali, bidonville e asini greci al pascolo.

Donne velate, marinai, preti greco ortodossi, templi di Bali, case di sherpa, barche dipinte in Tunisia, bambini brasiliani e contadini georgiani. Bruce Chatwin è stato l’ultimo nomade in un mondo sempre più ristretto e diffidente. Ci rimangono le sue testimonianze di viaggio in diari, appunti, romanzi e narrazioni. Ha lasciato cinquanta taccuini tascabili, rilegati con quel tipo di similpelle lucido che in Francia va sotto il nome di moleskine, depositari delle sue impressioni immediate dei luoghi, delle persone, degli edifici e dei suoi pensieri frammentari. Un accumulo di appunti istintivi che tentano di fissare sul nascere ogni riflessione non ancora consapevole nella speranza che un giorno possa trasformarsi in un paragrafo, una narrazione. Nelle pagine dei suoi libri “Patagonia”, “Utz”, “Le vie dei canti”, “Il vicerè di Ouidah” ritroviamo tutta l’irrequietezza di questo splendido viaggiatore capace di reinventarsi continuamente come un cantastorie, tutta la sua disperata volontà e voglia di vivere e la sua anima di giornalista, scrittore, archeologo, esploratore, esperto d’arte. Un uomo solo che ha deciso di vivere senza confini. Scriveva: “Il nomade rinuncia; medita in solitudine; abbandona i rituali collettivi e non si cura dei procedimenti razionali dell’istruzione o della cultura. E’ un uomo di fede.”

E il suo grande vagabondare nel mondo è stato il suo atto di fede. Persino nella morte ha scelto come ultima dimora la Grecia, la cappella bizantina in rovina dedicata a san Nicola in Chora, dove, sotto un ulivo, si trovano le sue ceneri. In un’epoca in cui anche il viaggio è omologato, intrappolato nei circuiti turistici più trendy e nelle immagini di paradisi low cost raggiungibili da chiunque, viene da chiedersi se non si sia perso il senso del viaggiare, adeguandosi comodamente ai pacchetti magistralmente preconfezionati che fanno bella mostra nei cataloghi patinati dei tour operator o se non sia necessario, piuttosto, recuperare il senso originario del viaggio in tutta la sua autenticità e il suo vero fascino.

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Liliana Cerqueni

Autrice, giornalista pubblicista, laureata in Lingue e Letterature straniere presso l’Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano. E’ nata nel cuore delle Dolomiti, a Primiero San Martino di Castrozza (Trento), dove vive e dove ha insegnato tedesco e inglese. Ha una figlia, Daniela, il suo “tutto”. Ha pubblicato “Storie di vita e di carcere” (2014) e “Istantanee di fuga” (2015) con Sensibili alle Foglie e collabora con diverse testate. Appassionata di cinema, lettura, fotografia e … Coldplay, pratica nordic walking, una discreta arte culinaria e la scrittura a un nuovo romanzo che uscirà nel… (?).

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Pescando un pesce d’oro
5 titoli evergreen dall’archivio di 50.000 titoli  di Periscopio

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

Periscopio è  proprietà di un azionariato diffuso e partecipato, garanzia di una gestitone collettiva e democratica del quotidiano. Si finanzia, quindi vive, grazie ai liberi contributi dei suoi lettori amici e sostenitori. Accetta e ospita sponsor ed inserzionisti solo socialmente, eticamente e culturalmente meritevoli.

Nato quasi otto anni fa con il nome Ferraraitalia già con una vocazione glocal, oggi il quotidiano è diventato: Periscopio naviga già in mare aperto, rivolgendosi a un pubblico nazionale e non solo. Non ci dimentichiamo però di Ferrara, la città che ospita la redazione e dove ogni giorno si fabbrica il giornale. e Ferraraitalia continua a vivere dentro Periscopio all’interno di una sezione speciale, una parte importante del tutto. 
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Francesco Monini
direttore responsabile


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