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(Pubblicato il 21 maggio 2015)

La notizia compariva qualche giorno fa in un breve articolo su un sito specializzato [vedi], con un titolo che oltretutto andava decodificato per poter comprendere il senso di quanto veniva raccontato. Il succo è che, come in un gioco di echi, l’Olivetti muore di fatto un’altra volta. La Telecom, padrona del marchio, ha infatti annunciato, con l’abusata e vieta scusa di volerlo rilanciare, che degli attuali 500 dipendenti ne rimarranno solo 200, mentre gli altri verranno impiegati in altre aziende del gruppo o prepensionati. Per dare un senso di prospettiva ricordo che a livello mondiale l’Olivetti dava lavoro nel 1989 a circa 57.000 persone, di cui la metà in Italia, scese a 30.000 nel 1995, quando ormai la crisi dell’azienda aveva raggiunto, a fronte delle scelte della proprietà e della miopia della politica, il punto di non ritorno. Quei 200 superstiti quindi e prevedibilmente ancora per poco sono quanto rimane oggi di un’azienda che ha rappresentato per decenni un’eccellenza italiana, non solo dal punto di vista della capacità di innovare, che l’ha portata ad essere alla fine degli anni ‘80 il leader indiscusso dell’industria informatica europea, ma anche per i modelli avanzati di organizzazione del lavoro e di rapporto fra le strutture produttive ed i territori in cui erano insediati i suoi stabilimenti. Da questo punto di vista l’Olivetti ha rappresentato per alcuni decenni l’immagine duale della Fiat: quanto più a Torino prevalevano logiche repressive e di sfruttamento, così ad Ivrea, ad appena 40 km di distanza, l’azienda realizzava servizi sociali d’avanguardia in fabbrica e sul territorio e sosteneva modifiche importanti all’organizzazione del lavoro operaio, pagando salari più elevati e superando già a partire dagli anni ’70 la catena di montaggio [vedi].
Intendiamoci l’Olivetti di cui parlo ed in cui ho iniziato a lavorare nel 1982, giovane ingegnere elettronico partito dalla natia Ferrara carico di ideali e di speranze, non era già più da un pezzo quella di Adriano, morto nell’ormai lontano 1960 e non era nemmeno più quella delle macchine per scrivere e da calcolo meccaniche, oggetti quasi magici che ne avevano fatto la fortuna nel mondo. Era invece un azienda che, dopo una lunga crisi (di idee, di capitali, di gestione) durata almeno fino alla metà degli anni ’70, aveva imboccato con decisione la strada dell’innovazione, che inglobava già nei suoi prodotti le più recenti evoluzioni dell’elettronica e della nascente industria informatica e che rappresentava nel panorama italiano, nonostante le scellerate dismissioni di alcuni settori di ricerca avanzata avvenute durante il lungo periodo di gestione incerta e poco lungimirante successivo alla morte di Adriano, la punta di diamante della ricerca e dello sviluppo nell’informatica professionale.
Se nel breve volgere del primo quinquennio degli anni ’90 quella grande realtà industriale si è di fatto progressivamente dissolta lo si deve a scelte sbagliate da parte di una proprietà, che è sempre stata maggiormente attratta dalla rendita finanziaria piuttosto che dallo sviluppo industriale, e dall’incredibile miopia ed arretratezza della politica, occorre dirlo sia di destra che di sinistra, nonché per certi versi anche del sindacato nazionale, che al massimo vedeva nella crisi dell’azienda un mero problema di salvaguardia dell’occupazione, senza cogliere fino in fondo l’importanza di avere in Italia un’industria informatica all’avanguardia, proprio nel momento in cui l’esplosione di internet stava cambiando tutto.
Un documento del 1996, redatto dalla Rsu, quando ormai era chiaro che tutte le residue risorse dell’azienda erano ormai interamente riversate nel mercato nascente della telefonia mobile (Ominitel), schematicamente sviluppava in un documento inviato alla politica il seguente ragionamento:
Senza titolo-1
Le scelte che seguirono, era entrato nel frattempo in carica il primo governo Prodi con Bersani all’Industria, assecondarono invece completamente la scelta della proprietà di abbandonare l’informatica a favore dell’investimento nelle TLC, che peraltro, come qualcuno aveva previsto, l’azienda non fu in grado di sostenere fino in fondo, al punto che dovette cedere nel 1999 la nuova divisione Tlc (cioè Omnitel e Infostrada) alla tedesca Mannesmann, poi a sua volta acquisita da Vodafone qualche anno dopo. C’è da dire che, almeno, sul piano dell’occupazione, nonostante i tagli ingentissimi di personale e grazie alla concessione di ammortizzatori sociali ad hoc, tutti i lavoratori trovarono una collocazione nelle società di Tlc del gruppo, in alcuni uffici della Pubblica Amministrazione oppure godettero di scivoli particolarmente vantaggiosi (fino a 7 anni) verso la pensione. Se può interessare a qualcuno, il giovane ingegnere di belle speranze di cui sopra, un po’ meno giovane, trovò una sistemazione nell’appena costituita Infostrada dove imparò un nuovo mestiere.
La fine ingloriosa dell’Olivetti è in sostanza una delle tante storie italiane di questo ultimo trentennio, fatta di ubriacatura finanziaria, passi più lunghi della gamba, assenza di politiche industriali e di scelte politiche in grado di immaginare gli interessi del Paese nel medio periodo.

Oggi di quell’esperienza, come visto, non rimane praticamente nulla, così come ancor meno, tolti i notevoli fabbricati industriali, le scuole e le sedi di mense e centri sanitari progettati dai migliori architetti dell’epoca, rimane della fase precedente, quella di Adriano, che aveva dimostrato, anche negli anni feroci del dopoguerra, come fosse possibile un diverso modo di fare impresa e di concepire la fabbrica come una vera e propria comunità. Molto si è discusso attorno a quel modello, che grazie all’iniziativa del suo ideatore aveva coinvolto nella gestione dell’azienda e nella pianificazione del suo futuro numerosi ed importanti figure di artisti e di intellettuali. Molti a sinistra di quell’esperienza criticavano l’aspetto paternalistico, che in qualche misura era presente, e lo stemperamento del conflitto sociale all’interno di un contesto aziendale “buono” ma fortemente delimitato, mentre semmai per chi lavorava nell’indotto la musica era ben altra.
Alcune cose hanno continuato a funzionare anche negli successivi: la rete di servizi sociali e sanitari per i dipendenti, dall’asilo nido di fabbrica alle visite mediche specialistiche completamente gratuiti, la fitta rete di trasporti, anch’essi gratuiti, che collegava le fabbriche con tutti i paesi del circondario. La biblioteca composta da svariate decine di migliaia di volumi annessa alla mensa – per me fu una vera sorpresa, aperta durante l’ora dei pasti in modo che chi voleva poteva prendere a prestito i libri, e le tante iniziative culturali sul territorio.

Al giorno d’oggi qualcosa che in qualche modo assomiglia a quel tipo di esperienza lo ritroviamo, non a caso, nelle maggiori aziende tecnologiche americane (Google, Microsoft, Amazon, Facebook, ecc.) all’interno delle quali esistono grandi spazi di flessibilità “buona” (cioè vantaggiosa per il lavoratore) e servizi di ogni tipo di qualità elevatissima. Qualcosa di analogo si ritrova, sia pur tenendo conto delle differenze culturali in gioco, anche in alcune grandi aziende asiatiche. La cosa che hanno in comune tutte queste aziende, oltre a dover attrarre le migliori professionalità presenti sul mercato e di operare in settori di tecnologia avanzata, ha a che fare con la loro struttura economica: si tratta infatti di grandi “macchine per fare soldi” che esibiscono fatturati e, soprattutto, margini elevatissimi. Anche l’Olivetti dei tempi di Adriano era più o meno nelle medesime condizioni: un’azienda in cui entravano materie prime di basso costo, come ad esempio il banale lamierino di ferro, ed uscivano macchine per scrivere e calcolatrici meccaniche ineguagliate. I ricarichi sui prezzi finali erano perciò molto elevati, così come di conseguenza lo erano i profitti. Questo ovviamente nulla toglie alle bontà delle intuizioni di Adriano né alla sua scelta altamente meritoria di ridistribuire sotto forma di servizi quote ingenti di un profitto che molti altri avrebbero invece semplicemente tenuto per sé, ma indica a mio parere una regola di carattere generale importante. Imprese impegnate a competere al centesimo sui prezzi e sui costi con i concorrenti o in condizioni economiche precarie ben difficilmente possono decidere di destinare risorse significative al miglioramento della qualità della vita dei propri dipendenti, oltre a quanto previsto da leggi e contratti di lavoro, anche al di là delle intenzioni della proprietà e del management. Solo in una struttura industriale moderna, che operi in settori innovativi caratterizzati da margini e tassi di sviluppo elevati, è possibile immaginare di poter trovare aziende “alla Olivetti”.

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Raffaele Mosca


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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