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Alzi la mano chi non ha una pessima opinione della burocrazia ed alzi la mano chi, immaginando la burocrazia, non pensi subito all’Italia. Alzi la mano, infine, chi non associa la burocrazia all’inefficienza, ad un passato superato dall’avvento delle tecnologie digitali e dalla avvenuta conquista di nuove libertà.
Ebbene, nel tempo del web e dell’informazione globale, il tema della burocrazia – le cui radici risalgono fino all’Egitto dei faraoni – è, invece, quanto mai attuale, e come spesso accade per le questioni importanti, dato per scontato; sorte questa, che lo accomuna ad altri concetti simbolo dell’occidente come democrazia, libertà e diritti.
Come noto, il termine burocrazia designa l’insieme di pubblici uffici e pubblici funzionari delegati a gestire e controllare, in modo impersonale ed unitario, i processi amministrativi necessari ad attuare quanto stabilito e regolato dal potere centrale di uno Stato. Per estensione si chiama burocrazia anche l’apparato amministrativo di partiti, sindacati, scuole, aziende. L’impersonalità, il ricorso alla norma scritta, l’onnipresenza della gerarchia, l’automaticità delle procedure, ne sono caratteristiche chiave insieme alla conclamata resistenza al mutamento.

La mentalità del burocrate si è andata conformando in ottemperanza a queste regole e si è tosto caratterizzata per l’adesione incondizionata al principio del rispetto della norma, ripiegandosi spesso sul valore degli atti e della carta a dispetto dei risultati, della chiarezza, dello spirito di servizio e della capacità di tenere relazioni significative con i cittadini. Spinta all’estremo la mentalità burocratica diventa patologica e condiziona pesantemente i fruitori del servizio con la sua incomprensibile implacabilità: il soggetto che ne cade vittima, dal fortino della sua specializzazione tecnica, può agire in contrasto alle leggi, ai valori e ai fini dell’organizzazione di appartenenza, in casi estremi può agire nell’illegalità mantenendo la parvenza della legalità. Ciò che conta non è il retto agire secondo standard morali e valoriali, non sono le azioni realmente svolte né le conseguenze di esse: ciò che conta, alla fine, è semplicemente avere le carte a posto. Questo tipo di mentalità è fortemente spinta da una società che fa della produzione e riproduzione del controllo il suo feticcio e la sua regola; controllare i prodotti, le organizzazioni e i loro processi, controllare i territori, controllare la rete internet, controllare gli ambienti chiusi, controllare i bilanci e i flussi finanziari, controllare le persone e i loro comportamenti sul lavoro. Le motivazioni che caratterizzano questo tipo di mentalità sembrano collocarsi tra due opposte tendenza: da un lato il freddo calcolo connesso al possesso del potere e alla possibilità di servirsene in modo legalmente non sanzionabile e, dall’altro, il senso di impotenza e mancanza di potere, l’insicurezza che porta a trincerarsi dietro le regole e le norme che proteggono dall’onere di assumere una responsabilità diretta e personale.

Questo tipo di mentalità burocratica, che non raramente degenera nel malaffare, non è affatto confinata nei meandri della Pubblica Amministrazione: essa è presente, seppure con forme e gradazioni diverse, in molti settori della vita sociale e contribuisce ampiamente a quel crollo della fiducia e a quella ossessione crescente per il controllo che caratterizza i nostri giorni. La penetrazione di questo tipo di mentalità è davvero sbalorditiva.

La si nota nella clamorosa proliferazione di linee guida, regole, norme, regolamenti, leggi, che hanno reso la Comunità Europea un labirinto disorientante dove si perdono gli stessi burocrati; una mole di atti che nessun singolo individuo è in grado di conoscere e maneggiare in autonomia, spesse volte in contraddizione tra di loro e con le immancabili postille che fin troppo spesso negano la sostanza degli intendimenti iniziali. Una complessità che di fatto depotenzia la buona politica, favorisce il potere delle lobby e rende impossibile qualsiasi forma di verifica al cittadino. La si intuisce nei grandi progetti finanziati dall’Unione Europea, dove buona parte delle risorse deve essere impegnata nella pura gestione e rendicontazione amministrativa, attività per la quale esistono un gran numero di imprese specializzate e di professionisti in grado di parlare la neolingua burocratica inaccessibile ai profani e, appunto, di produrre le carte giuste nel giusto momento, secondo i precisi standard dell’iter burocratico.

Lo si nota nei complicatissimi adempimenti che riguardano le imprese non meno che nella vita quotidiana dei singoli, dove ormai diventa difficile operare senza l’assistenza di qualche professionista capace di aiutare il cittadino a districarsi nella babele di norme ed aggiornamenti che riguardano tasse e tributi, adempimenti e scadenze amministrative varie. La si vede all’opera nelle aziende socialmente irresponsabili ma perfettamente allineate alla lettera piuttosto che allo spirito delle norme e delle leggi, non meno che nell’agire quotidiano di manager e funzionari che compiono coscienziosamente il loro dovere in vista della esclusiva massimizzazione delle loro opportunità di carriera e della reputazione che ne ricavano.

Paradossalmente, una componente di questo spirito la si coglie anche (ed assai più tristemente), nella costante richiesta, da parte di cittadini e gruppi di cittadini organizzati, di regole e di leggi sempre più specifiche e particolari, di controlli e di verifiche che, spesso, sono avanzate proprio da coloro che fanno della condanna dell’inefficienza burocratica la loro bandiera. Si può riconoscere in questa esigenza di regolazione crescente un estensione di quella società dei controlli descritta da Michael Power che, garantendo certezze di tipo giuridico e normativo, blandisce le insicurezze crescenti dei cittadini e diffonde quell’ansia di controllo che è retaggio caratteristico di ogni burocrazia.
Le tecnologie digitali, lungi dal risolvere questi problemi, esaltano ed amplificano, potenziandole, alcune delle assunzioni di un modello burocratico che fa del controllo il suo fondamento. Oggi infatti i dispositivi digitali consentono un monitoraggio minuzioso di ogni tipo di processo, rendendo per molti versi automatico ed impersonale il faticoso compito della vigilanza; il nascente web delle cose (IOT) e solo il primo passo che porterà con ogni probabilità alla creazione di un web delle persone capace di garantire un monitoraggio totale, non solo dei comportamenti ma anche dei parametri vitali (corporei) di ogni individuo connesso. Un compito ovviamente, che può essere svolto solo da macchine calcolatrici che siano in grado di supportare potenti algoritmi di calcolo basati sull’intelligenza artificiale, un processo automatico che, tra l’altro, finirà con l’escludere un intera classe di lavoratori attualmente attivi nel settore altamente articolato dei controlli.

Soprattutto quest’ultimo aspetto inquieta profondamente gli spiriti liberi e quanti intendono fare dell’evoluzione personale, dell’apprendimento costante, della responsabilità, della partecipazione e del rapporto diretto con l’altro, l’orizzonte del loro agire. Preoccupa infatti una simile potenza tecnologica nelle mani di mentalità burocratiche patologiche; preoccupa la deriva verso l’ottemperanza ottusa alla regola rispetto ai suoi risultati e preoccupa, infine, il trasferimento della responsabilità verso meccanismi automatici impersonali anche per questioni banali e quotidiane, nella presunzione che questi, meglio degli umani, sappiano affrontare decisioni complesse e stressanti. E’ oggi improbabile che questo processo possa essere interrotto o reindirizzato stante la contemporanea e massiccia richiesta di ulteriore controllo da parte degli individui, alimentata dalla paura e dal senso di insicurezza crescente.
Si tratta di un doppio movimento con il quale bisogna fare i conti seriamente, pena la creazione di un Panopticon tecnologico che susciterebbe l’entusiasmo di Jeremy Bentham: unica soluzione è forse un salto di consapevolezza civile e personale da parte di un gran numero di cittadini, maggiore educazione, più conoscenza e responsabilità, più confidenza con la tecno-scenza e con i meccanismi psicologici e sociali che rendono carente il nostro modo di pensare; sperando, naturalmente, che lo spirito burocratico patologico non abbia ormai infettato in modo irreversibile l’intera società.

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Bruno Vigilio Turra

È sociologo laureato a Trento. Per lavoro e per passione è consulente strategico e valutatore di piani, programmi e progetti; è stato partner di imprese di ricerca e consulenza e segretario della Associazione italiana di valutazione. A Bolzano ha avuto la fortuna di sviluppare il primo progetto di miglioramento organizzativo di una Procura della Repubblica in Italia. Attualmente libero professionista è particolarmente interessato alle dinamiche di apprendimento, all’innovazione sociale, alle nuove tecnologie e al loro impatto sulla società. Lavora in tutta Italia e per scelta vive tra Ferrara e le Dolomiti trentine.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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