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‘Tremate, tremate’, questo il titolo di uno degli ultimi incontri della prima giornata di Internazionale a Ferrara 2018. Un titolo che richiama uno degli slogan delle femministe italiane negli anni delle lotte per la sessualità consapevole, la maternità responsabile e la riforma del diritto di famiglia; e sul palco del Teatro Comunale Claudio Abbado sono appunto salite cinque donne rappresentanti di diversi femminismi in diverse parti del mondo: le giornaliste Ida Dominijanni e Katha Pollit, Marta Dillon del movimento argentino Ni una menos, ispiratore dell’italiano Non una di meno, la polacca Marta Lempart e la pakistana Rafia Zakaria. Già questa è una testimonianza di quanto le lotte femministe stiano vivendo una stagione di nuovo internazionalismo e di reciproca influenza, quando non collaborazione. E qualche volta le cose cambiano, come dimostra per esempio l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace 2018 al ginecologo Denis Mukwege e a Nadia Murad, ex schiava del sesso dei miliziani dell’Isis, per il loro impegno contro l’uso della violenza sessuale come arma di guerra.
Tutto questo ha portato Dominijanni a dire che “il nuovo filo rosso fra i femminismi non è più solo la lotta contro la violenza di genere, sulla sessualità, sulla procreazione, ma anche quella su tematiche più strettamente politiche”: insomma se da una parte ci sono “la crisi del patriarcato e i rigurgiti dei nazionalismi” dall’altra “il fiume carsico delle lotte femministe riemerge in tutto il mondo”.

Anche la femminista e attivista lesbica argentina Marta Dillon ha affermato con forza e orgoglio che “il femminismo è l’internazionalismo che dobbiamo costruire oggi e per il futuro”, mettendo nel centro del bersaglio il sistema maschilista, patriarcale e capitalista nel suo insieme come si è venuto a costruire dal Medioevo. Non si può contrastare la violenza di genere senza combattere e decostruire “la violenza politica ed economica” creata dal contesto in generale; “dobbiamo cambiare la distribuzione della ricchezza, il modello di costruzione della famiglia”. Come farlo? Dillon usa un’espressione di una potenza e di una poeticità assolute: “trarre forza dalla vulnerabilità, trasformare la sofferenza in potenza, questi sono da sempre gli strumenti di lotta di tutti gli emarginati da chi detiene il potere”.
Ecco allora che anche il corpo da oggetto di violenza diventa strumento di lotta: lo si porta in strada per manifestare, per scioperare. Lo hanno fatto le argentine, come prima di loro, un anno fa, lo avevano fatto le polacche: uno sciopero femminista e classista. Il messaggio è “se siamo inferiori e inutili provate a far andare avanti il mondo senza di noi”. Per un giorno intero non sono andate al lavoro o a lezione all’università, hanno lasciato i bambini alla cura di qualcun altro e non si sono occupate delle faccende di cui di solito di occupano, hanno manifestato vestite di nero in segno di lutto per la possibile perdita dei loro diritti e della loro libertà, per protestare contro un disegno di legge che vieterebbe praticamente ogni forma di aborto, in un paese dove la pratica dell’interruzione di gravidanza è già ristretta a pochissimi casi. E da allora le cose sono cambiate, ha spiegato Marta Lempart: “prima solo il 37% della popolazione era favorevole all’aborto, ora siamo saliti al 69%”, ora lei, femminista e lesbica, può candidarsi per la prima volta alle elezioni comunali della sua città. E allora si va avanti e si combatte contro i neonazisti ai quali il governo permette di sfilare nelle strade delle città: “a Varsavia 14 donne si sono messe di traverso a 61.000 neonazisti. Sono state insultate e picchiate e ora sono addirittura sotto processo, accusate di aver tentato di fermare la marcia”. “Il nostro programma si chiama ‘Polonia per tutti’, per una Polonia nella quale i diritti siano garantiti per tutti: siamo in tante e anche se qualcuna di noi viene messa a tacere le altre sono pronte a prenderne il posto”.

E chi incarna il modello capitalista e machista meglio del Presidente Usa Donald Trump? “Negli Stati Uniti ci sono sempre più donne che si candidano proprio come reazione all’elezione di Trump: sono infuriate perché non è solo un reazionario, ma è anche una persona che ha compiuto atti terribili verso le donne e ne è contento”, ha spiegato Katha Pollit, che ha poi aggiunto “Me too, finora associato solo al mondo dei media statunitense e hollywoodiano, in realtà associa la lotta alla violenza contro le donne e quella alle discriminazioni sul lavoro”. (Leggi l’articolo di Ferraraitalia sulle femministe americane e le ultime elezioni americane)

Rafia Zakaria ha portato la prospettiva delle femministe dei paesi islamici che devono combattere una doppia battaglia: contro gli estremisti islamici e contro gli occidentali che le vogliono emancipare con le bombe. “Dobbiamo scontrarci con le interpretazioni misogine dell’Islam e con chi dice che quello è l’unico modo per essere musulmano e poi con il neoimperialismo. Gli islamisti ci dicono che il femminismo è un’invenzione occidentale e quindi non possiamo essere femministe, mentre gli occidentali ci vogliono insegnare cosa significa essere femministe ed emancipate, mentre invece c’è un femminismo autonomo nei paesi musulmani. Spesso abbiamo l’impressione che le alleanze femministe siano per così dire condizionate dall’ammissione da parte nostra che tutti gli uomini musulmani sono cattivi”.

Tanto, tantissimo è stato fatto e tanto, tantissimo potrebbe offrire la visione femminile e femminista del mondo in un momento di crisi e trasformazione come quello che stiamo attraversando. Ma c’è ancora tanto, tantissimo da fare: sono ancora le donne a dover tremare purtroppo, anche qui in Italia, se giovedì notte anche grazie al voto di una donna, capogruppo del Pd in Consiglio Comunale, Verona è diventata ufficialmente “città a favore della vita” grazie a una mozione con la quale fra l’altro saranno finanziate associazioni cattoliche che portano avanti iniziative contro le interruzioni volontarie di gravidanza.

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Federica Pezzoli


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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