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Silvia Motta è la ‘signora degli ascolti’, una donna che si muove con estrema disinvoltura tra statistiche, percentuali, share e date con quella padronanza tipica di chi maneggia la materia con competenza e autorevolezza. Cifre e numeri non hanno segreti per lei e la lettura di esiti e ascolti è sempre puntuale e approfondita. Una donna sempre sorridente e solare, coloratissima ed elegante nelle sue mise che vedono abito e turbante in pendant, quel turbante che evoca “La ragazza dall’orecchino di perla”, capolavoro di Jan Vermeer. Può risultare simpatica, ironica, mordente e una cosa è certa: sa il fatto suo e per niente al mondo rinuncerebbe a essere anche la ‘signora della sua famiglia’.

Come ha esordito in tv e qual è stato il percorso che l’ha condotta al ruolo attuale?
Ho iniziato a lavorare in televisione nel 1999 per Stream Tv, precursore di Sky, sperimentando le basi della pay tv in Italia. Fu il teatro ad aprirmi le porte della tv. Avendo sin da giovane affiancato agli studi un percorso teatrale, avvenne che il produttore di un nuovo programma di Stream, venendo a teatro, mi propose di affiancare un comune amico attore nella conduzione di un programma dedicato al fitness e allo sport. Fu un vero tour de force, giravamo ogni giorno in esterna e in studio. Il mio approccio alla tv è stato giocoso, casuale, ma anche molto faticoso. Giravamo le parti in studio anche di notte perché ciascuno di noi aveva un altro lavoro. Io per esempio, essendomi laureata in Lettere, ero da poco docente in un liceo di Milano, e tra un’esterna e l’altra correggevo i temi dei ragazzi. Ricordo che in quel periodo dormivo pochissimo e lavoravo tantissimo.

Poi finalmente la svolta.
Sì, mi arrivò la proposta di Mediaset di far parte della redazione di ‘Tempi Moderni’, programma cult, condotto da Daria Bignardi. Quella è stata la mia iniziazione alla tv strutturata e organizzata, dove ognuno aveva la propria specificità. Fu una propizia esperienza fatta di dirette in prima serata e di rapporti con diverse professionalità del mondo televisivo. Per Mediaset lavorai anche con Enzo Iacchetti alla realizzazione di un programma dedicato a Giorgio Gaber, il signorG. In quegli anni stava nascendo La7, che sarebbe diventata presto uno dei protagonisti del panorama televisivo italiano. Alla chiusura di ‘Tempi Moderni’ molti dei miei colleghi decisero di approdare a questa nuova realtà. Io feci una scelta diversa perché mi capitò l’occasione di incontrare Massimo Bernardini, allora giornalista di ‘Avvenire’, che stava per cimentarsi per Sat2000 nella sua prima avventura televisiva, quella che poi, grazie a Giovanni Minoli, sarebbe diventata in Rai ‘TvTalk’. Ai tempi di Sat2000 il programma era tutto da costruire e io accettai la sfida. All’inizio eravamo una piccola bottega: Bernardini, io, un collega giornalista, una solerte segretaria, un paio di tecnici, e dovevamo mettere in piedi quello che poi sarebbe diventato uno dei programmi più autorevoli della tv italiana in materia di comunicazione.

Da “piccola bottega” a grande esperienza.
Mi resi subito conto delle potenzialità del nostro programma basato sulla semplice struttura del dialogo tra un gruppo di giovani ventenni e i personaggi che avevano fatto la storia della televisione. Da subito infatti parteciparono ospiti come Pippo Baudo, Bruno Vespa, Maurizio Costanzo, Renzo Arbore, Michele Santoro, desiderosi di mettersi in dialogo con i nostri giovani. Giovanni Minoli nel 2004 riuscì a traghettare questa esperienza in Rai, dove ‘TvTalk’ si arricchì delle diverse professionalità che poteva offrire il Servizio Pubblico e pian piano divenne quello che è adesso. Il mio ruolo di ‘signora degli ascolti’ nacque nel 2001 dall’esigenza di raccontare non solo cosa c’è dietro la televisione, ma anche da chi è fruita. Mi ritengo una pioniera dei Tv Big Data Scientist nella realtà italiana, e grazie a ‘TvTalk’ ho maturato quindici anni di esperienza nell’approfondimento e nello studio dei linguaggi visivi e verbali della televisione. Nell’ultimo decennio mi sono specializzata nelle audience televisive e nelle programming strategies dei palinsesti. Sono diventata esperta degli andamenti di flusso del pubblico in relazione ai mutamenti del panorama televisivo nel passaggio dall’analogico al digitale terrestre e dell’evoluzione delle piattaforme digitali e satellitari. Grazie a questa formazione maturata sul campo, dal 2014 sono consulente per ‘Porta a Porta’, per cui svolgo indagini sugli ascolti e sull’evoluzione del pubblico televisivo e sul successo dei diversi generi e dei maggiori personaggi della storia della televisione; dal 2013 ho condotto per tre stagioni una finestra quotidiana informativa all’interno di ‘Agorà’ e di ‘Mi Manda Raitre’, dove invitavo il pubblico ad affinare il proprio senso critico, suggerendo criteri di fruizione delle immagini e di selezione dei contenuti. Nell’estate del 2014 ho divulgato quotidianamente in tv per RaiSport i dati d’ascolto dei Mondiali del Brasile, registrati dalle piattaforme dei maggiori broadcasters italiani ed esteri. Affianco all’attività televisiva quella di media auditing, artistic and content curation, product and operations media managing. A tutt’oggi sono audience voice di ‘TvTalk’, in onda ogni sabato pomeriggio su Raitre.

Cosa significa affrontare una carriera come la sua e farsi strada nel mondo dei network? Quali sono le opportunità e le criticità in tal senso?
Nel corso degli anni ho imparato a non farmi abbagliare dalle luci degli studi e a non concepirmi da sola. I programmi televisivi sono il frutto di un lavoro di squadra che deve arrivare direttamente al cuore dei telespettatori. Noi lavoriamo per il pubblico ed è fondamentale mettersi continuamente in relazione con le altre professionalità che lavorano al prodotto, cercando di non dare nulla per scontato. Possono capitare mille opportunità, ma per non seguire delle chimere è di fondamentale importanza l’interazione diretta col pubblico e la sua inclusività, perché solo nell’esperienza della ‘connessione’ con i telespettatori non si perdono di vista gli obiettivi del Servizio Pubblico ed è possibile partecipare alla creazione di programmi di qualità.

Nella scaletta dei requisiti utili al proprio lavoro, quanto conta la passione rispetto alla competenza o la capacità relazionale?
La relazione appassionata è la premessa di tutto. Nel mio caso poi è di fondamentale importanza perché non avrei mai potuto appassionarmi ai laconici numeri dell’Auditel se non convertendoli nella fotografia ad alta definizione del volto dei telespettatori, traducendo i dati in valori identitari condivisi, allo scopo di offrire icasticamente ai telespettatori la consapevolezza di essere una community di utenti attivi più che di anonimi video-consumers solitari. Dunque nel mio caso non ci sarebbe passione senza relazione con il pubblico. Solo per un rapporto appassionato uno si muove, studia, lavora e diventa competente.

L’offerta televisiva del nostro Paese ci fornisce una vasta scelta, ma molti format arrivano dall’estero. Ritiene che questo sia un arricchimento o pensa che ciò inibisca e offuschi la nostra capacità creativa, penalizzando un po’ le risorse che potremmo attivare?
Penso che tutto possa trasformarsi in arricchimento se non penalizza noi stessi. Anche nell’industria televisiva ci siamo assuefatti a un certo modo di condurre le ricerche di mercato. Dobbiamo uscire dalle logiche che ci impongono un modello industriale che subordina acriticamente la creatività a un problema gestionale o di costi. Io credo che la grande industria televisiva italiana possa fare qualche sforzo in più per non soggiacere alla facilità del prodotto d’acquisto talvolta usurato in termini di qualità. Ne gioverebbe anche in termini di ascolto. Bisogna ricreare un’abitudine alla qualità, di cui il nostro Servizio Pubblico ha un’estimata tradizione. Non è detto che nel nostro Paese non vi siano eredi e non è detto che costi di più.

Quali sono, secondo la sua esperienza professionale, i generi televisivi che i telespettatori apprezzano maggiormente?
Negli ultimi anni il pubblico, inclusi i target più giovani, plaude con entusiasmo alla fiction italiana, come ci dimostra il successo di stagione di titoli come ‘I Medici’ e ‘I Bastardi di Pizzofalcone’. Credo sia il segnale che il Paese ha bisogno del luogo chiuso e sicuro del racconto per ritrovare un spazio in cui esercitare le proprie certezze. Il fatto che ‘Don Matteo’ sia ancora una delle fiction di maggior successo ci fa capire come il prete, il poliziotto e la famiglia siano posizioni di grande riscontro nell’immedesimazione del telespettatore.

In quale direzione sta andando la televisione italiana? Esistono dei cambiamenti reali negli ultimi anni o rimaniamo fedeli al modello che conosciamo?
Proprio la scorsa settimana ero presente alla conferenza stampa di presentazione del prossimo Festival di Sanremo e fuori dalla sala una vastissima folla attendeva con tremore l’arrivo di Carlo Conti e Maria De Filippi, che sono tra i più grandi mattatori della nostra televisione. Finchè ci saranno queste folle ad attenderli, finchè milioni di telespettatori li seguiranno in tv, finchè metà della platea televisiva continuerà a guardare il Festival della canzone italiana, si può affermare che siamo fedeli al modello che conosciamo. E’ pur vero che nonostante la tv generalista continui a registrare grandi ascolti, negli ultimi anni, con il passaggio dall’analogico al digitale terrestre, stiamo assistendo ad un progressivo frastagliamento del pubblico e ad una frammentazione degli ascolti conseguente al moltiplicarsi delle reti televisive. Il consumo dei prodotti non è più solo quello tradizionale dello zapping, ma c’è ormai una fruizione on demand su più piattaforme e con un consumo multi-screen, anche se non sempre si consuma solo ciò che viene prodotto dalla tv per la tv. Aggiungo che con la nascita delle tv tematiche c’è stata dal 2012 a oggi una grandissima rivoluzione, perché aumentando l’offerta con traiettorie sempre più specifiche, anche i singoli target hanno trovato canali di elezione e di conseguenza gli inserzionisti pubblicitari trovano più facilmente nicchie in cui investire, dando possibilità al mercato di rigenerarsi. Certo sarebbe auspicabile che nel creare i programmi gli editori pensassero anche alla qualità che offrono al pubblico oltre che al mercato di riferimento, per non rischiare, sul lungo periodo, un impoverimento su tutti i fronti.

Lei ha quattro figli: in quale modo riesce a conciliare professione e famiglia, tenendo conto di priorità e impegni?
Misurando le ore di sonno e pensando a quello che c’è da fare di lì a poco mentre si sta già facendo quello a cui si pensava poco prima. Insomma, non fermandosi mai. La famiglia è una società, una piccola nazione, una macchina. Le professioni di ciascuno, dei genitori e dei figli, con ogni singolarità, contribuiscono a comporre gli ingranaggi di questa macchina perché si vada tutti nella stessa direzione, quella di chi guida.

Ci vuol parlare del suo rapporto con i figli?
Mi sono sempre stupita di come siano tutti differenti e peculiari. Ho un rapporto speciale con ognuno di loro, perché le loro personalità, che nel corso degli anni affiorano sempre di più, mi portano a rispondere discretamente a ciascuno. Uno ama essere abbracciato, l’altro ascoltato, un altro ancora ama ascoltare e l’altro adora abbracciare. Sicuramente richiedono dedizione e attenzione, ma questo vale per tutti, genitori e figli. Nella nostra casa un mezzo prezioso di dialogo sereno è la musica. Ognuno è impegnato nello studio di almeno uno strumento e suonare insieme, anche se costa fatica, ci insegna a condividere momenti di armonia.

Quali sono i suoi interessi personali, tempo e disponibilità permettendo, tra una registrazione e l’altra, le esigenze e responsabilità familiari?
Mi piace leggere romanzi storici, suonare il pianoforte, e andare a Teatro. Ho avuto queste passioni fin dalla scuola media e negli anni sono maturate, anche se il tempo che vi dedico ormai non ha più lo stesso respiro..

Quali sono i suoi ‘sogni’ per i prossimi anni?
Il mio più grande desiderio si è già realizzato nel condividere la mia quotidianità professionale con grandi maestri dello spettacolo, del marketing, del giornalismo e dell’informazione. Spero un giorno di poter offrire a mia volta tutto quello di cui faccio esperienza. Per il resto, essendo approdata in tv con lo scricchiolio del palco sotto i piedi, dopo quindici magnifici anni in tv seduta dietro una scrivania non mi dispiacerebbe eliminare ogni tanto almeno lo sgabello.

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Liliana Cerqueni

Autrice, giornalista pubblicista, laureata in Lingue e Letterature straniere presso l’Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano. E’ nata nel cuore delle Dolomiti, a Primiero San Martino di Castrozza (Trento), dove vive e dove ha insegnato tedesco e inglese. Ha una figlia, Daniela, il suo “tutto”. Ha pubblicato “Storie di vita e di carcere” (2014) e “Istantanee di fuga” (2015) con Sensibili alle Foglie e collabora con diverse testate. Appassionata di cinema, lettura, fotografia e … Coldplay, pratica nordic walking, una discreta arte culinaria e la scrittura a un nuovo romanzo che uscirà nel… (?).

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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Francesco Monini
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