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di Vincenzo Masini

Il tema del politicamente corretto è la questione in cui più sottilmente si manifesta l’ipocrisia della politica.
L’espressione “politicamente corretto”, nata negli anni ’70, si incentrava sul tipo di linguaggio da utilizzare per garantire il rispetto verso persone appartenenti a minoranze, a differenti culture, con situazioni di disabilità, di esclusione sociale o di maggiore debolezza nel potere contrattuale e nell’immagine.
Il linguaggio voleva rappresentare un atteggiamento di accettazione e di inclusione da parte dei politicamente corretti per sancire una alleanza politica con le diverse minoranze. La teoria di inclusione sociale sottintesa era che l’insieme delle minoranze poteva diventare una maggioranza politica anche se a partecipare alle diverse minoranze fosse lo stesso individuo. Egli infatti poteva essere contemporaneamente ambientalista, vegetariano, omosessuale, malato, disabile, appartenente ad una minoranza etnica, ad una religione non ufficiale, ecc.

Il percorso di accettazione delle minoranze raggiunge però solo traguardi formali e linguistici poiché non riesce a produrre sostanza relazionale limitandosi al terreno dei diritti civili, delle carte dei diritti e delle leggi. La minoranza si attende però un altro livello di accettazione relazionale poiché vorrebbe che la maggioranza si “facesse simile” ovvero conformasse lo stile di vita al messaggio, anche di sofferenza, di cui la minoranza è portatrice. L’attesa ingenua della minoranza è quella di poter essere maggioranza per ottenere un’identità collettiva che sazi il bisogno di riconoscimento. Invece si trova di fronte solo al cambiamento del linguaggio.

Il linguaggio ha così determinato nella minoranza un’attesa di attenzione e di cura che è di gran lunga superiore alle possibilità relazionali, sociali ed economiche del sistema globalizzato e dei suoi stili di vita. Le aspettative deluse nella vita quotidiana possono dunque trasformarsi in rivendicazioni sociali anche molto forti.Serge Moscovici elabora la fondamentale teoria che l’influenza della minoranza differisce da quella della maggioranza perché la prima può aver luogo solo in condizioni di antagonismo mentre la seconda può realizzarsi anche in un contesto collaborativo. La maggioranza normativa può essere influenzata solo mediante l’enunciazione di posizioni politiche chiare capaci di attirare interesse dall’esterno.

Il problema vero è che l’interesse suscitato all’esterno del collettivo della minoranza è un interesse ipocrita, giacché esprime una posizione a livello linguistico ma un’altra a livello relazionale. In pratica un costante doppio legame, nel senso proposto da Gregory Bateson e di cui discuteremo più avanti.
Il latore del doppio legame è anch’egli prigioniero del medesimo doppio legame strutturato nel suo egocentrismo e non riesce nemmeno a rendersi conto del proprio atteggiamento ipocrita.
Egli bada costantemente a usare un linguaggio che non faccia sentire nessuno escluso, sminuito o svalutato, evita di riferire argomentazioni che si riferiscano ad un gruppo demografico (o a qualunque minoranza), modifica per compiacenza o per ideologia espressioni verbali che possono farlo apparire insensibile ai diritti della minoranza (dirà ministra per rispetto al movimento femminile nato come minoranza), non userà espressioni come “handicappato” o “ritardato” sostituendole con disabile, non si esprimerà con affermazioni religiose o simboli che possono offendere altre religioni, adopererà termini neutri per non perdere la faccia sbagliando interpretazioni di gender (“esci con qualcuno?” al posto di “hai la ragazza?”), non userà espressioni ritenute squalificanti per alcune professioni (becchino diventa operatore cimiteriale, spazzino diventa operatore ecologico, bidello diventa operatore scolastico…), si sforzerà di non apparire scorretto con barzellette che riguardano razza, classe, sessualità, età, genere, o abilità fisica e, ovviamente, cercherà sempre di parlare bene di tutte le minoranze.

Se questi atteggiamenti fossero solo indice di buona educazione non avremmo i giganteschi problemi psicologici e relazionali che il loro uso ha prodotto.
In primo luogo limitando implicitamente la libertà di pensiero, ovvero la riflessione personale (la Ragione) su temi come immigrazione, sicurezza, differenze di civiltà, di origine geografica e razziale, omosessualità, gender mainstreaming, domande esistenziali e fedi religiose inducendo la sensazione che si stiano affrontando dei tabù per il ciclo attuale della globalizzazione che deve rendere tutto indifferenziato.

La dittatura del relativismo che sta alle spalle del politicamente corretto mira a un progetto di riscrittura della mentalità e della società in chiave ipocrita e burocratica per neutralizzare sia i riferimenti ideali sia la relazionalità autentica.
In secondo luogo illudendo le minoranze di una loro piena accettazione attraverso l’opposizione ad una impalpabile maggioranza che le emarginerebbe perché razzista, omofoba, rozza, fascista, oscurantista e oppressiva. Quando il processo di opposizione è avviato esso non ha più fine perché ciascuna minoranza dovrà fare proselitismo per essere accettata dalla maggioranza e diventare essa stessa maggioranza. Il processo è dunque doppiamente ipocrita: i sostenitori dei diritti delle minoranze istigano al linguaggio politicamente corretto ma non modificano nulla del loro stile di vita e di relazione con le minoranze.

Attribuiscono poi a chiunque ponga resistenze al linguaggio politicamente corretto la responsabilità della non accettazione delle minoranze e, contemporaneamente, lottano per l’affermazione formale dei diritti delle minoranze. Pur sapendo che tali diritti saranno negati fattivamente dal potere burocratico insensibile alle relazioni e incapace di individuare soluzione pratiche e concrete. I critici del politicamente corretto sono costretti a diventare minoranza nel relativismo universale e, ipocritamente, affermare essi stessi il diritto ad essere accettati anche e solo come forme folkloristiche appartenenti al passato di cui hanno nostalgia.

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

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