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2 Settembre 2018

Juliana

Tempo di lettura: 11 minuti


L’impressione che Juliana dava immediatamente era quella di un’anima in pena, una giovane leonessa in gabbia costretta a girare e rigirare senza sosta in uno spazio che non era il suo. Gli sforzi di apparire diversa, calma e accomodante erano perfino commoventi ma non convincenti. La giovane donna si presentava un po’ dimessa anche se era palese il tentativo di vestire in modo accattivante, con quell’incredibile gonna jeans di finti rattoppi fuori moda, le magliette a righe con colori mal combinati, gli zoccoli con zeppa e borchie, i pantaloni sformati, a volte troppo corti, altre troppo abbondanti. Era magra ed un po’ ingobbita, forse ritirata in se stessa per l’imbarazzo o l’istinto di auto protezione. L’armonia d’insieme del piccolo viso tondo era disturbata da una fronte perennemente corrugata che lasciava trapelare un pensiero tormentato costante, senza tregua. Si lisciava senza sosta i capelli, quel caschetto irregolare e ormai fuori taglio da parecchio tempo, di un biondo indefinibile, risultato di chissà quali prodotti ossigenanti scadenti. Sembrava perfino che il giallo sfumasse, ad un certo punto, in un vago riflesso verdognolo. Era stata contattata perché in famiglia avevano deciso di assumere una badante per la madre ultranovantenne, dal momento che nessuno era più in grado di reggere lavoro e ritmi ormai pesanti e far fronte ai bisogni di quell’anziana donna che non aveva perso né l’attitudine al comando, né l’istinto di governare la casa a modo suo anche se le forze andavano regredendo e i risultati non sarebbero mai potuti essere quelli di un tempo.
La ragazza era sembrata “all’antica”, una di quelle rare ragazze come ormai non se ne trovano, senza grilli per la testa, pragmatiche e di buonsenso. Una giovane senza età perché aveva vissuto abbastanza da accumulare esperienza, in luoghi segnati dalla disciplina sovietica, dal rigore di quel modello che permea ancora quel Paese e anche dalle batoste e vicissitudini che il destino le aveva assegnato. Veniva dall’Ucraina ma la famiglia d’origine era uzbeka. Un mix di provenienze, spostamenti e storie familiari complesse, movimentate, spesso pesanti.
“Mio padre se n’è andato da casa, vicino a Taškent, lasciando mia mamma con due figli piccoli, io avevo solo tre anni e mio fratello era più grande. Colpa del cattivo carattere di mia mamma.” aveva raccontato con aria convinta, asettica, senza manifestare alcun segno di sofferenza. Solo l’addebito alla madre lasciava capire che dovevano esistere ancora delle pendenze, degli irrisolti.
Aveva cominciato a lavorare già il giorno dopo il suo arrivo e non si risparmiava su niente; la si doveva mandare di forza a riposare qualche ora al pomeriggio ed invitare ad uscire per fare quattro passi. Intuitiva e dotata di quell’ intelligenza pratica che distingue chi ha dovuto misurarsi con la corteccia dura della vita, capiva ed affrontava le situazioni a volo, prendendo iniziative e agendo velocemente.
Rimasta sola con due creature, la madre aveva lasciato la bambina dai nonni in Uzbekistan, e si era stabilita in Ucraina, a qualche decina di chilometri da Kiev col figlio maschio. E’ difficile spiegare il perché della scelta: forse Juliana le ricordava troppo quel marito che se n’era scappato con un’altra in Grecia, forse temeva per l’incolumità della figlia femmina in un Paese diverso, straniero, dove gli uomini “non si fanno tanti scrupoli, specie quando hanno bevuto a dismisura”, come aveva confessato alla figlia una volta. Era stato molto più facile per lei lasciare da solo a casa quel figlio maschio mentre lavorava turni massacranti in una fabbrica di surgelati a 200 Euro al mese, compresi straordinari notturni nei periodi di sovrapproduzione. E c’era da esserne contenti perché al peggio non c’è mai fine. Sta di fatto che la bambina era cresciuta con i due anziani nonni, una capra bianca, qualche mucca ed un cane, qualche parente che abitava nei paraggi del villaggio rurale sperso nella campagna, bambina povera ma spensierata, in quella casa di legno in cui d’estate entravano ondate di caldo umido e d’inverno si formava una patina di cristallini di ghiaccio sulle pareti. Niente bagno in casa, solo uno sgabuzzino di assi malconce, una tavola di legno con un buco, una fogna a cielo aperto a pochi metri dall’abitazione. La ragazza ricordava sorridendo le pareti di assito della cucina su cui qualcuno aveva tentato dei disegni, i tuffi nelle pozzanghere con gli altri bambini, le rincorse ai maiali e alle galline, le bevute di latte appena munto dal nonno e le grida delle vicine da una casa all’altra. Un’infanzia durata un attimo ma troppo intensa e gioiosa per non raccontarla con gli occhi lucidi diventati, col sorriso, appena due fessure, due regolari segmenti orizzontali. Una notte la nonna le era morta accanto nello stesso letto, dopo aver patito le pene dell’inferno per un tumore al seno mai curato. Non se l’era goduto molto l’affetto di quella donna che l’aveva allevata per qualche anno e l’aveva amata più delle figlie. Poi era toccato al nonno, povero vecchio stanco che non aveva più né forza né voglia di vivere. Juliana aveva 11 anni quando la spedirono in Ucraina dalla madre Anja, diventata negli anni una perfetta estranea. L’unico ricordo nitido che la ragazzina conservava di lei era di una donna giovane e bella che suonava il violino perché, di tutte le figlie, era stata l’unica che aveva avuto il privilegio e la fortuna di imparare a farlo da un vecchio del paese. Quello che Juliana non conosceva per vissuto, aveva provveduto la nonna a raccontarglielo: sua figlia Anja era la più bella e la più ribelle tra le figlie, la più corteggiata e richiesta. Venivano in tanti a chiedere di lei a casa ma il nonno li allontanava tutti perché su di lei riponeva grandi speranze, era o non era quella che aveva più possibilità di tutti? Forte, sana, sveglia e bella. E poi sapeva suonare il violino nelle feste e matrimoni, per chiunque fosse disposto a darle qualcosa in cambio di quella magica musica. Faceva vibrare le corde e metteva i brividi, così raccontavano. In seguito, la fabbrica ucraina di surgelati le aveva danneggiato le dita, che erano rosse e spesso gonfie e doloranti, perché per lavorare di più e in fretta non sempre indossava i guanti e questo era stato l’inizio della fine come violinista. Le speranze del nonno erano andate in frantumi quando Anja aveva sposato Jakov, un bravo muratore ma sicuramente non un ambìto genero. Le cose erano andate finchè l’uomo aveva preso altre strade con altre intenzioni sparendo nel nulla.
Quando Juliana lavorava in casa come badante della sua anziana, sembrava quasi che scaricasse ogni briciolo di energia, pensiero, ricordo e riflessione dolorosa sui fornelli, la biancheria da lavare, il ferro da stiro sempre caldo e la carrozzina dell’invalida che lei conduceva in lunghi giri senza fine nei giardini pubblici o nelle vie del centro. Quello che sembrava contare per lei era muoversi ininterrottamente, quasi si sentisse rincorsa da qualcosa di oscuro e pericoloso. Non aveva pace, non si dava pace e quando riferì della brutta fine che aveva fatto quel padre, trovato morto ad Atene in circostanze mai chiarite, si comprese questo suo modo di essere. Lei raccontava che il cadavere era stato scorto sulle rive dell’Egeo, in una zona depressa del Pireo, gonfio e sformato dalla lunga permanenza in acqua, con le mani legate e un rozzo cappio al collo. Una laconica comunicazione burocratica aveva informato Anja e i figli dell’accaduto. L’immagine di quel padre che lei guardava spesso in fotografia, era diventata nel tempo una vera e propria icona da adorare, invocare e rimpiangere, un atto sublimatorio che segnava ogni attimo della sua vita.
La vita della ragazza in Ucraina si divideva tra la scuola, qualche amica e una casa da tirare avanti in assenza della madre che si annientava di lavoro. Vivevano in una abitazione piccolissima, la più sgangherata della strada, diceva Juliana, in un centro abitato che aveva ridato vita ad una zona ex-militare dismessa: le caserme erano diventate condomini, gli alloggi degli ufficiali erano appartamenti in piccoli blocchi grigi come gli altri ma meno affollati, gli hangar si presentavano ora come magazzini semivuoti, il cemento delle strade era rimasto là, dappertutto, in tutto il suo squallore. Un non luogo che di giorno si svuotava e di notte si riempiva di umanità stanca e litigiosa.
“A 14-15-16 anni andavo di nascosto a ballare in discoteca a Kiev o altri posti, bevevo cose forti, mi divertivo, eravamo una bella compagnia di amici.” raccontava la ragazza, aggiungendo che molti ragazzi come lei avevano perso la vita in incidenti d’ auto o motorino e in risse epocali. Il fratello stesso frequentava una palestra di boxe, perché la boxe era un mito e lui era considerato davvero bravo. Raccontò in particolare di uno scontro nel suo quartiere, tra una banda di rom che scorazzava in zona già da molto, molestando, rubando e minacciando. Quando un giovane locale rimase ucciso, la reazione della gente fu terribile: vennero incendiate le case dei responsabili che sparirono definitivamente.
Il sogno di Juliana era quello di andarsene, rincorrere spazi più ampi, guadagnare per mettere a posto quella casa che non era una casa ma qualcosa di molto simile, fare nuove conoscenze e magari trovare un ragazzo di cui innamorarsi. Ma soprattutto voleva allontanarsi da quella madre scomoda che riteneva responsabile dello sfascio della sua famiglia “per il brutto carattere”, come andava ripetendo. E se ne andò sul serio, senza dire né tre né sei, senza tante cerimonie e tanti addii. Passò il confine con la Polonia come molti ucraini, a raccogliere mele per confezionarle in casse da esportazione. La paga non avrebbe dato una svolta alla sua vita ma non era nemmeno disprezzabile, anche se parallelamente spendeva in cose che non aveva mai e poi mai avuto. Sembrava che tutto andasse al posto giusto e il quadro che lei aveva in mente si andasse a comporre esattamente come desiderava che fosse. Quando conobbe Jan, lei aveva già deciso che sarebbe stato per sempre, non importava che avesse una moglie, un figlio e raccontasse più menzogne che verità. Lavorava nell’ufficio del magazzino, aveva soldi, spendeva per lei in modo così prodigo che lei stessa si meravigliava di tanta abbondanza: smartphone, abiti, un viaggio nella capitale Varsavia, l’orologio, … e soprattutto le regalava interminabili dichiarazioni che la facevano sentire totalmente realizzata. Era fagocitata da questa nuova vita e dalla piega che gli eventi avevano preso, al punto tale che non esisteva più nessuno all’infuori di quell’uomo che l’aveva travolta con regali, gentilezza e velate promesse. Non c’era discorso in cui non comparisse Jan, non c’erano progetti, sogni e visioni del futuro che non lo includessero. Era passata dal nulla al molto e questo balzo la sconcertava e la lusingava insieme. Litigi furiosi e scenate di gelosia ogni volta che l’uomo dedicava attenzioni a qualcuna si alternavano a rese incondizionate e pace dichiarata. Una sfibrante altalena che non tendeva a cessare. Juliana era esausta, prosciugata, esaurita. La notte non dormiva e il giorno era ancora peggio. Quando scoprì che sparivano le sue cose, compresi i regali che aveva gelosamente custodito, e le vide indosso a qualche sua connazionale che di buon grado aveva accettato da Jan questi inaspettati oggetti, qualcosa scattò. Qualcosa di rabbioso, definitivo.
Arraffò in fretta tutto ciò che poteva raccogliere e se ne andò, lasciandosi alle spalle solo odio. Era arrivata in Italia su uno di quegli sgangherati pullman che regolarmente fanno la spola con l’est, Islamabad, Chişinău, Bucarest…ed imbarcano ogni sorta di speranza: quella di guadagnare per un futuro sicuro, quella di uscire dalla miseria, di aiutare figli e nipoti perché gli uomini non hanno lavoro, quella di trovare da sposarsi, quella di… Ed eccola qua, anche lei, giovane ignara alla stessa stregua della più incallita e smaliziata delle badanti, con una valigia che si chiude a malapena, lacrime e voglia di riscatto.
La nuova vita in Italia l’aveva profondamente cambiata e un po’ alla volta, giorno dopo giorno, senza accorgersene, aveva assunto i comportamenti, gli atteggiamenti e perfino i gusti di chi la circondava, delle nuove conoscenze e dei modelli che la tv proponeva. Aveva cominciato a spendere in moda, magari quella più popolare del mercato, in cosmetici, gratta e vinci, bijoux, riviste, biglietti dell’autobus e del treno per raggiungere le città vicine nei momenti di libertà. Ora era disinvolta e sicura come non lo era mai stata, ma anche meno disponibile a riconoscere le debolezze e le fragilità degli altri; a volte sembrava anche un po’ aggressiva e sfacciata. Proprio così, l’aveva definita l’anziana di casa che non aveva peli sulla lingua e avvertiva più di altri la grande metamorfosi. Non restava neanche l’ombra di quella figurina impacciata che li aveva inteneriti al primo incontro. Ma si sa, la vita pialla, lima, forgia e rimodella, eliminando, aggiungendo, mescolando e definendo nuove menti, nuove ottiche, nuove persone e nuovi mondi.
Juliana continuava a fare il proprio dovere ma spassionatamente, senz’anima; continuava a guadagnare e spendere, lamentarsi per i piccoli disagi che le convivenze forzate inevitabilmente inducono, incontrare amici online in modo compulsivo e tagliare un po’ alla volta i fili che la univano a madre, fratello e parenti più cari. Era una specie di forza d’inerzia, quella che la conduceva ad andare avanti senza tanti scrupoli e ripensamenti.
E un giorno sparì, lasciando tutti di stucco. E quando si ripresero dallo sconcerto, tra un misto di indignazione e risentimento, azzardarono ipotesi e pensieri di ogni tipo. Ognuno diceva la sua e la sosteneva col suffragio di fatti successi, parole dette in precedenza, sospetti che covavano da lungo tempo e molta, molta fantasia. I più moderati erano propensi a credere che se ne fosse tornata a casa, i più estremisti paventavano già scenari da thriller sull’onda di qualche notizia del TG che riguardava giovani donne trovate decapitate in un fosso piuttosto che prive di vita in qualche scantinato. I ragionevoli esortavano alla cautela e invitavano ad attendere, anche perché non c’era motivo che la ragazza non desse notizie di sé.
La famiglia, il vicinato e tutti coloro che erano abituati a vederla tutti i giorni se ne dimenticarono un po’ alla volta, come succede sempre quando la novità del momento perde di mordente e dopo un paio di anni anche le più labili tracce erano sparite dai discorsi. Le badanti si susseguirono in quella casa e la nonnina sembrava essersi acquietata, rassegnata al fatto che qualcuno si occupasse di lei e facesse i lavori al posto suo.
Una mattina sua figlia, ferma ad un semaforo che non scattava mai, guardandosi intorno annoiata la vide. Elegantissima, i capelli diversi, splendidi, un’aria di sufficienza e sprezzo, o così dava a vedere. Era lei, ne era sicura, impossibile non riconoscerla dopo che erano vissute nella stessa casa per diverso tempo. Si concentrò su quella figura di donna appariscente per cercare ancora segni e conferme ma non aveva dubbi, era Juliana. Avrebbe voluto aprire il finestrino per chiamarla ma era scattato il verde e qualcuno cominciava a suonare il clacson. Riavviò la macchina e guardò nello specchietto, il tempo di vederla ridere aggrappata al braccio di un uomo attempato che la guardava compiaciuto. Guidò fino a casa con quell’immagine fissa negli occhi e concluse che la vita ha sempre un asso nella manica. Forse.

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Liliana Cerqueni

Autrice, giornalista pubblicista, laureata in Lingue e Letterature straniere presso l’Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano. E’ nata nel cuore delle Dolomiti, a Primiero San Martino di Castrozza (Trento), dove vive e dove ha insegnato tedesco e inglese. Ha una figlia, Daniela, il suo “tutto”. Ha pubblicato “Storie di vita e di carcere” (2014) e “Istantanee di fuga” (2015) con Sensibili alle Foglie e collabora con diverse testate. Appassionata di cinema, lettura, fotografia e … Coldplay, pratica nordic walking, una discreta arte culinaria e la scrittura a un nuovo romanzo che uscirà nel… (?).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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