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25 Febbraio 2018

La bicicletta

Tempo di lettura: 9 minuti


Racconto di Maurizio Olivari
Foto di Giordano Tunioli

Per credere a questa storia, serve un po’ di fantasia ma garantisco che è tutto vero. Vivo in quella che è definita la città delle biciclette e io faccio parte di questa èlite, venerata, rispettata, molto usata, rubata e talvolta abbandonata. Mi chiamo Vittoria, una nobile famiglia di biciclette fin dal 1940 e sono stata adottata dalla famiglia del sig. Filippo, che ho accompagnato per 30 anni al lavoro tutti i giorni, con sole, pioggia, vento e tempesta, sempre ben accudita, pulita e lubrificata. Qualche volta ero nervosa e come dicono in città le persone che si arrabbiano “a mè andà zzò la cadena”, perché anche a me saltava mettendo in difficoltà il signor Filippo.
Adesso sono qui un po’ acciaccata e lasciata abbandonata nella cantina (una specie di pensionato) della casa, stretta fra scatoloni e mobili in disuso, bottiglie di vino, pacchi di carta igienica di riserva (forse prevedevano diarree abbondanti) e decine di vasetti di marmellata e conserve che saranno ormai ammuffite.
Attendo con rassegnazione di essere rottamata, anche perché tutta la famiglia del sig. Filippo non gira con le biciclette, solo macchina o motorino e quindi un giorno per fare spazio, hop… via la Vittoria.
Eppure io mi sento ancora arzilla, credo che dopo una sistematina, una revisione alle gambe, per meglio dire alle ruote, cambio dei freni per trattenere i miei entusiasmi, farei ancora la mia figura. Ma adesso sono rassegnata, anche se la speranza è l’ultima a morire.
Scusate, stanno aprendo la porta della cantina, vediamo… è il giovane Andrea, nipote del sig. Filippo, un bel ragazzo quasi diciottenne… cosa fa? Sposta scatoloni, rimuove i mobiletti, viene verso di me… ehi ehi… cosa fai? Non prendermi così, non strattonarmi… ahi… un po’ di grazia… accidenti!
Mi porta fuori nel cortile e comincia a scrutarmi con espressione abbastanza dubbiosa. Finalmente vedo la luce del giorno, mi sento sgonfia, una boccata d’aria fresca mi sta facendo bene ma penso subito che sia arrivato il mio momento. Mi stanno portando alla rottamazione. Addio mondo crudele, evviva le biciclette, abbasso i motori, viva le pedalate!
“Giovanotto cosa fai?” Con una spugnetta inumidita comincia a massaggiarmi tutto il corpo, il manubrio, la sella, il cannone (sono una bici per uomo), poi i pedali. ”Piano che mi fai solletico!” Mi serviva una bella pulitina… Vuoi vedere che posso ancora interessare? Possibile, che io vecchietta, attiri questo giovanotto? Sembra di sì!
Adesso cosa fa? Con un pennello comincia a coprirmi con della vernice bianca per il corpo ed azzurra per i parafanghi. Sarà un ultras della squadra di calcio della città!
Mi lubrifica tutta la catena, una gonfiatina alle gambe, che sono ancora ben tornite e mi lascia sul cavalletto ad asciugare.
“Ehi… giovanotto, alla mia età di notte non vedo bene, dovresti cambiarmi il fanale e anche dietro, perché quando mi guardano voglio che si noti il segnale rosso guardare e non toccare!”
Sono qui sola, ma comunque contenta di essere uscita da quella prigione.
Dopo aver trascorso tutta la notte all’aperto, con dolorini alle parti arrugginite, mi sono svegliata con la curiosità di sapere che cosa mi aspettava.
Il giovane Andrea arrivò presto e dopo avermi palpeggiato per sentire lo stato della verniciatura, saltò in sella al grido “andiamo vecchia ratara!” Ratara è il temine dialettale che gli anziani danno alle biciclette che, girando, emettono cigolii vari e rumori strani.
Io sono una di quelle, rumoreggio ma intanto vi porto dove volete.
Riesco a sopportare abbastanza bene il peso di Andrea, in quanto mingherlino, con conseguente ritmo e buona velocità.
“Attento Andrea, no in senso contrario! Attento fermati c’è il semaforo rosso! Beata gioventù! Comincio a pensare che vivevo più tranquilla nella cantina.”
E’ tardo pomeriggio, arriviamo in centro città e Andrea mi appoggia al muretto che circonda il Castello Estense e, armeggiando con una catena, mi fissa a un paletto. Cosa ho fatto di male per essere incatenata? Mi guardo intorno e vedo tante altre sorelle nelle stesse condizioni. “Vigliacchi schiavisti!” Una Graziella lì accanto, mi rassicura dicendo che i padroni ci incatenano per non lasciarci nelle mani dei ladri delinquenti, che ci avrebbero spedite in terre lontane, per essere vendute alle tribù del posto. Mi tranquillizzo e mi appisolo, questa prima uscita mi ha proprio stancato. Ogni tanto però apro un occhio, per vedere Andrea cosa fa: insieme agli amici ride e scherza con un bicchiere pieno di roba rossa che sentivo chiamare spritz.
Beata gioventù. Alzo gli occhi oltre il muretto e ammiro quello che è il più importante monumento della città: il Castello Estense. Proprio in quel momento si avvicina un gruppo di persone con un capogruppo che teneva alta una bandierina. Erano certamente turisti, visto anche il continuo scattare di fotografie. Al centro del gruppo una signorina con un piccolo microfono, raccontava che il castello era stato costruito nel 1385 come maniero militare e completato nel 1500, per divenire anche dimora degli Este. Uno dei pochi esempi di castello ancora interamente circondato da un fossato con acqua, e tre ingressi protetti da ponti levatoi. All’interno andranno a visitare splendide sale come quella dei Giochi, la sala dell’Aurora, la Loggia degli Aranci, la Cappella di Renata di Francia, moglie di Ercole II, poi le prigioni sotterranee dove ebbe il tragico epilogo l’amore di Parisina, sposa di Niccolò III, per il suo figliastro Ugo.
Mi dispiace per la tragedia ma sono contenta di aver sentito gratuitamente tutte queste informazioni.
Sento armeggiare nella catena che mi fermava una gamba e guardo subito, con la paura di vedere qualche male intenzionato. Per fortuna era Andrea che finito l’aperitivo mi cavalcava per ripartire.
“Aiuto! Ma come guidi? Dai, cerca di andare diritto, no a zig zag… attento al palo!”
Forse ha bevuto troppo di quella roba rossa.
Si avvia verso quella strada che la guida del gruppo indicava come la via principale dell’Addizione Erculea, dell’architetto Biagio Rossetti, lunga e diritta ma che Andrea percorreva zigzagando, bellissima ma con un difetto, tutta ciottoli anche un po’ sconnessi e non era la situazione migliore per le mie articolazioni arrugginite.
Barcollando qua e là arriviamo, dopo aver superato il quadrivio con il famoso Palazzo dei Diamanti, ora sede della Pinacoteca, così aveva detto la guida al gruppo, alle mura della città che la cingono per una lunghezza di circa 10 Km. Arrivati alla Porta degli Angeli, la guida l’aveva definita anche la casa del boia, perché nelle vicinanze abitava colui che era addetto alle esecuzioni capitali in voga ai tempi Estensi, prendiamo finalmente la via asfaltata e grazie a Dio arriviamo a casa.
Andrea apre la cantina e letteralmente mi butta dentro, finendo per fortuna contro i pacchi di carta igienica, che hanno attutito il colpo. Sono sfinita, come prima uscita è stata molto faticosa e lontano erano i tempi in cui con il nonno di Andrea, si andava in giro o al lavoro, sempre con lente pedalate, le sue mani sul mio manubrio come fossimo due innamorati. Adesso buona notte, voglio riposare e speriamo che domani non sia un altro tour de force o come dicono in dialetto un’altra stracavada.
Andrea arriva di buon mattino gridando “Andiamo ratara, di corsa che ho un appuntamento!” Velocemente arriviamo in centro e passando vicino alla Cattedrale, ci fermiamo per comprare il giornale. Andrea mi lascia senza protezione e si allontana di pochi metri e io ho un po’ paura. Cerco di darmi un tono guardando la facciata del Duomo, il Palazzo Comunale, la Torre dell’orologio e la grande Piazza Trento Trieste piena di bancarelle del mercato settimanale.
Sono fortunata perché mi viene vicino una famiglia di turisti. Credo padre, madre con due ragazzine. Lui ha l’aria del professore, perché aiutato da un manuale comincia a raccontare che la Cattedrale è stata inaugurata nel 1135 ed è il massimo monumento medioevale della città, costruito in stile gotico-romanico, ha una facciata marmorea a tre cuspidi ed è percorsa da più ordini di loggette. Il Campanile è stato terminato nel 1596 e all’interno della Basilica andranno a vedere famosi affreschi e splendidi altari. La moglie annuiva interessata e le figlie invece fingendo interesse, guardavano i loro telefonini. Io della descrizione avevo inteso poco ma ero comunque contenta di quanto avevo imparato.
Andrea arriva con la Gazzetta dello sport che mi infila nel portapacchi e parte verso via Mazzini, superiamo il ghetto ebraico, anche lì turisti in visita, e arriviamo a Palazzo Paradiso, ora sede della Biblioteca Nazionale. Mi deposita accanto a tante consorelle e più precisamente vicinissima ad un modello di bici olandese e se ne va, probabilmente a consultare qualche libro. Questa bici olandese, di colore rosso acceso, con sella e manopole in pelle nera, doppi grandi occhi, retro con gemme fluorescenti e freni a bacchetta, era una una vera fuori serie. Anche lei era stata protetta dalla tradizionale catena. Era proprio bella e lo sapeva, tanto da guardarmi dall’alto in basso, effettivamente era più alta di me.
Mi sentivo un po’ tapina ma presi coraggio e le chiesi come si chiamava. Guardandomi con sussiego rispose “Old american style.” Allora non era olandese.
“Piacere… Vittoria, italian style.” risposi. Era tanto piena di sé che non continuò il discorso. Io le voltai la ruota dall’altra parte.
Dopo qualche attimo, sento armeggiare vicino a me. Mi volto e vedo due individui dal viso un po’ losco, che con una tenaglia stanno tentando di tagliare la catena della american style, impietrita dalla paura. Decido di agire usando il nuovo campanello che mi aveva montato Andrea. Comincio a scampanellare attirando l’attenzione di alcuni ragazzi che, vista la scena, si avvicinano, facendo così scappare i due loschi figuri. La old american style girando la ruota verso di me mi sussurra “Thank you.”
Non capisco ma penso volesse ringraziarmi.
Dopo qualche attimo vedo uscire dalla biblioteca Andrea con accanto una biondina molto carina. Arrivano vicino alle biciclette e la ragazza con stizza grida “Accidenti, ho forato la bicicletta!” Parlava della old american style. Non sapeva che la bici aveva subito violenza e che le gomme sgonfie erano dovute alla paura sofferta dalla sua fuoriserie.
Andrea subito si offre di accompagnare la ragazza, dicendole di salire sul cannone della sua bici.
“Andrea ti prego non farlo…” dico “Non posso sopportare il peso, sono vecchia!”
La ragazza sale e anche se il sederino era morbido, ho sofferto le pene dell’inferno.
“Non andremo ancora sui ciottoli eh?”
Prendiamo invece per una delle arterie medievali più integre della città. Via delle Volte, un tempo riva sinistra del Po e ora, con delle volte che uniscono le case ai lati, diventata una strada romantica e ricca di fascino. “Andrea sei un volpone…”
Un po’ arrancando riattraversiamo il centro, per poi arrivare nella splendida Piazza Ariostea.
I giovani scendono, mi appoggiano a un albero e vanno a sedersi sui gradoni che circondano la piazza. Nel progetto del Rossetti, così aveva raccontato la guida, era chiamata Piazza Nuova, con al centro una maestosa colonna che aveva ospitato nella sommità, in successione nel tempo, la statua di Alessandro VII, quella della Libertà, poi di Napoleone, e ora del grande poeta Ariosto. Circondata da alberi ad alto fusto, oggi ospita fra l’altro il Palio di San Giorgio, con le corse dei putti, delle putte, delle asine e dei cavalli.
Come una brava nonna guardo i due ragazzi che, vicini, vicini, si parlano scambiandosi qualche tenero bacio e non mi vergogno a dirlo, mi commuovo un po’ pensando a quando ero giovincella e mi ero innamorata di un velocipede da corsa, bello con due braccia ricurve, snello e scattante, le gambe sottili e molto attraenti. Siamo stati insieme solo per pochi giorni, dopo è partito per correre il Giro d’Italia e non l’ho più visto.
Andrea con la ragazza sul cannone riprende con me la strada, forse per accompagnare a casa la biondina. Imbocca Via Borso, “Mamma mia… ma è la strada che porta al cimitero! Mi stanno portando all’ultima dimora!”
In fondo voltiamo a sinistra (meno male…) arriviamo in Via Ercole I D’Este, quella con i ciottoli e con mia grande sofferenza andiamo verso le mura, fermandoci davanti a una bella casetta in mattoni di cotto ferrarese. La ragazza abitava lì (ancora meno male).
Un bacetto, un saluto e via verso casa.
Andrea per la prima volta mi rivolge la parola, quasi come parlasse a sua sorella.
“Vedi cara biga…” non mi aveva chiamato ratara, aveva usato un altro termine dialettale ma più dolce, “Oggi sei stata bravissima, hai contribuito a rendermi felice… La biondina, sai, si vantava di avere una bellissima bicicletta, mi evitava, se ne andava via sempre sola. E invece oggi, grazie a te, siamo stati un po’ insieme e forse nascerà qualcosa di più di una amicizia. E brava Vittoria!”
Che bello, mi aveva chiamato col mio nome!
Arrivati a casa, mi porta dentro la cantina, mi appoggia delicatamente ai pacchi di carta igienica, mi copre con cura con un panno e mentre se ne va, si gira verso di me guardandomi dolcemente, chissà se ha sentito che ho sussurrato “Grazie a te!”

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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