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È il grido d’allarme, l’appello-sentenza contenuto nella lettera di oltre 600 docenti universitari che chiedono al governo e al parlamento interventi urgenti per rimediare alle carenze in italiano dei loro studenti. I nostri studenti leggono e scrivono male e si esprimono ancora peggio. La colpa della scuola di base, maestre e maestri che non fanno più dettati, riassunti, analisi grammaticale e scrittura corsiva a mano.
Per essere il pensiero dei nostri docenti accademici, sa molto di “signora mia, le stagioni non sono più quelle di una volta!”.
Poi, che la colpa di tutto questo sia della scuola è un refrain che ormai si propaga come un’eco ben dagli anni ’70. Da quando, cioè, ha preso avvio un processo legislativo di profondo rinnovamento dell’istruzione di base fino ai programmi della scuola elementare del 1985, una scuola che allora ci poneva ai primi posti nel mondo e che i vari governi della destra con i ministri Moratti e Gelmini hanno provveduto a smantellare nel nome dell’ideologia del maestro unico.
Ci si aspetterebbe da docenti universitari delle riflessioni un poco più meditate o per lo meno documentate, perché tutte le ricette che loro propongono, per rimettere insieme i cocci della preparazione dei nostri giovani, sono ampiamente contenute in modo chiaro e dettagliato, con obiettivi, competenze e traguardi da raggiungere rispettivamente al termine della classe terza e quinta della scuola primaria e al termine della secondaria di primo grado da pagina 28 a pagina 36 delle Indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo dell’istruzione del 2012.
Sarà una coincidenza, ma The Telegraph del 31 gennaio scorso pubblicava il rapporto dell’Ocse sulle competenze base in lingua madre e matematica degli studenti universitari inglesi, competenze dall’Ocse valutate al disotto di quelle di Australia, Irlanda, Polonia, Italia e Spagna.
La conclusione del rapporto è, sempre per pura coincidenza, la stessa suggerita dai nostri seicento accademici, cioè la scarsa preparazione degli alunni al termine della scuola di base.
Non vorremmo che avendo già la percentuale più bassa di giovani laureati in Europa, qualcuno fosse tentato di ridurla ulteriormente, proponendo altri imbuti, oltre a quelli che già ci sono, per l’accesso ai corsi di laurea.
L’appello dei nostri professori pecca di imperdonabile superficialità, già vista e già sentita.
Preoccupa che parte dell’intelligenza di cui dovrebbe disporre il paese sia in grado solo di suggerire la presenza degli insegnanti di scuola media alle verifiche al termine della classe quinta della primaria, quasi a riproporre, una volta abolito l’esame di quinta elementare, il ripristino dell’antico esame di ammissione alla scuola media e agli esami di terza media la presenza di insegnanti delle superiori. Con l’unica idea guida che esami e prove irrobustiscono gli alunni, fanno bene per formarli alle difficoltà della vita. È sempre il passato che in queste ricette torna a puzzare.
Quello di questi 600 docenti pare uno sfogo più che un contributo di idee, che sono decisamente deboli e scarse. Uno sfogo sponsorizzato dal gruppo fiorentino di “Scuola del merito e della responsabilità”, impegnato contro “la crisi dell’educazione nella famiglia e nella scuola che ha indebolito la capacità di genitori e insegnanti di educare con fermezza e non solo con affetto”.
Allora dietro all’appello degli universitari in realtà ci sta il pregiudizio che impedisce loro di dare un contributo reale cercando di analizzare in profondità le ragioni di un sistema di istruzione che non funziona non solo come fenomeno del nostro paese ma di una intera epoca.
Questi signori invece di riproporre i luoghi comuni di cui abbiamo piene le orecchie, dovrebbero incominciare a studiare, perché di idee nuove su come rinnovare insegnamento e apprendimento per il mondo ne girano tante che le nostre università continuano a ignorare.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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