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Con il Memorandum del 2000 l’Europa si proclama Società della Conoscenza e assume l’apprendimento permanente, vale a dire per l’intero arco della vita, come chiave di volta del suo futuro sviluppo centrato sul capitale umano come risorsa di saperi e di competenze.
Da allora l’Europa ha sdoganato gli apprendimenti informali e non formali, attribuendo ad essi la stessa dignità degli apprendimenti formali, ovvero di quelli acquisiti all’interno dei percorsi di istruzione tradizionali. Anzi, l’Europa ha fatto di più, ha chiesto ai paesi membri di istituire entro il 2018 modalità per la certificazione dell’apprendimento non formale e informale che consentano a tutte le persone di ottenere una convalida delle conoscenze, abilità e competenze acquisite in questi contesti.
Nel 2012 la legge Fornero, in materia di riforma del lavoro, con i commi dal 51 al 61 dell’articolo 4 ha recepito le indicazioni europee in merito al riconoscimento ed alla certificazione degli apprendimenti informali e non formali. Ma la strada da percorrere per giungere “alla individuazione ed al riconoscimento del patrimonio culturale e professionale comunque accumulato dai cittadini e dai lavoratori nella loro storia personale e professionale” è ancora molto lunga. Da un lato per l’insieme dei soggetti coinvolti che dovrebbero sedere intorno allo stesso tavolo, dal Ministro dell’istruzione, università e ricerca, al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, al Ministro dello sviluppo economico, alle parti sociali interessate, dall’altro per via del taglio prevalentemente mercatistico che si è dato alla questione, dovuto essenzialmente alla miopia con cui si è convogliata l’istruzione permanente verso il mercato del lavoro, con le Regioni in prima linea a validare competenze e qualifiche rilasciate dagli operatori della formazione professionale.
Non si sa se per ignoranza o insipienza, ma le nostre classi politiche paiono immemori del rapporto dell’Unesco, noto come rapporto Faure dal titolo significativo “Learning to be”, “Apprendere per essere”, che già nel lontano 1972 assumeva l’istruzione nelle varie fasi della vita come strategica per lo sviluppo sociale e delle persone, come condizione per migliorare le conoscenze, le capacità e le competenze di ciascuno, uscendo da una visione preminentemente scolastico-accademica dell’apprendimento.
Da allora si è dilatato lo spazio dei saperi, ma non si è dilatata la mente dei nostri governanti né a livello nazionale né ai livelli locali, nessuno riesce a rendersi realmente conto di come il quadro dell’istruzione e degli apprendimenti sia radicalmente mutato, di come sempre più sia cresciuto generosamente il numero delle molte cose che si imparano senza insegnamento piuttosto di quelle che si insegnano senza apprendimento. Forse è il caso davvero di occuparsene e di fare i conti con tutto ciò.
Il nostro paese sconta gravi carenze in materia di istruzione, di competenze e capacità di riflessione che consentano di coltivare idee e progetti e non solo riforme spesso estemporanee.
Conoscenza e formazione hanno bisogno di più spazio e non di essere indirizzate per binari diversi: da un lato l’istruzione formale, dall’altro quella non formale e informale, senza mai che si incontrino e si possano contaminare.
È in questo quadro che i discorsi sui voti, le bocciature, i compiti a scuola e comunque sull’istruzione in generale perdono di ogni significato, si scolorano, finiscono per odorare di stantio e di pigrizia mentale, di ritardo sul nuovo che avanza, che richiederebbe di riconsiderare istruzione e apprendimento come dati costanti della nostra esistenza umana e non più come riti di passaggio o segmenti a sé stanti nella vita delle persone.
Tutta la varietà, diversità e complessità degli apprendimenti oggi dovrebbe condurre a un radicale ripensamento dei tradizionali sistemi formativi, per come li abbiamo concepiti finora, per iniziare a costruire spazi nuovi, più ampi e flessibili per tutti: studenti e adulti. Iniziare a costruire “città che apprendono” è l’idea forte per dare vita a questi spazi, per assumere l’iniziativa verso un impegno continuo per l’apprendimento permanente e per una visione nuova dell’istruzione. Non si tratta di voler descolarizzare la scuola, ma di descolarizzare l’apprendimento e l’idea di apprendimento come continuiamo a pensarlo, liberarlo dalle gabbie tradizionali, da cui del resto è già fuggito per via di internet.
Aprire le mura delle scuole, delle università e dei luoghi di lavoro all’idea che sono le città e le comunità sociali che apprendono. Può sembrare strano detta così, perché solitamente siamo portati a ritenere che solo gli individui apprendono e che questo è generalmente un fatto loro. Tuttavia non possiamo non tenere conto di come i cambiamenti sociali su larga scala sono prodotti dalle persone, in quanto cittadini che insieme possono agire.
L’idea, fatta propria dall’Europa, della società della conoscenza, con l’apprendimento come promozione del cambiamento sociale al suo interno, è il punto di riferimento, la guida per aiutare le persone e le comunità ad orientarsi nella società globale.
Un’idea che non si può esaurire nell’individuazione, validazione e certificazione delle competenze, è invece un’idea che richiede di ripensare come studiamo e come apprendiamo in una società dai saperi diffusi, in una società dove le nuove tecnologie hanno rivoluzionato sia la formazione che l’informazione.
Quello che si sta facendo per dare attuazione ai commi della citata legge Fornero, a proposito del riconoscimento degli apprendimenti informali e non formali delle persone, non solo procede a rilento, ma è estremamente parziale e riduttivo. Così come del resto è inadeguata la riforma intitolata alla “Buona scuola”, non già per le critiche che le vengono rivolte, da questo o quel settore del mondo della scuola, ma perché ad essere vecchia è la cultura della formazione e dell’apprendimento che la sottende. Sostanzialmente, sia la riforma degli apprendimenti della Fornero sia la riforma della scuola, sono il prodotto di legislatori impreparati rispetto ai temi e alle sfide della società della conoscenza, delle città che apprendono, sull’importanza della gestione della conoscenza e su come oggi si coniugano diritto all’istruzione e diritto alla formazione.
Temi che altrove in Europa, come in altri paesi del mondo sviluppato, costituiscono invece il cuore di ogni riflessione sulla necessità di riformare gli attuali sistemi di formazione e di istruzione, assumendo come stella polare l’istruzione permanente, l’apprendimento per l’intero arco della vita di ciascuno, senza i quali non è possibile disegnare alcun sistema formativo né per il tempo in cui viviamo né tanto meno per il tempo in cui vivranno le nuove generazioni.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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