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L’orizzonte di questa città è il fiume che corre in periferia, viene da lontano e va al mare che ci è vicino. Una città di fiume e di acque. Una strada porta al Po, l’altra porta al mare. E dentro le nostre vite. Vite che non sono né di fiume né di mare. Siamo padani di terra, di quella terra nera che faceva i nostri frutteti, prima che ci togliessero anche quelli. Non siamo neppure più contadini, da tempo. Neppure cittadini.
La città è la cattedrale, il castello, il castrum con il suo poco di medioevo e poi il rinascimento. Ma non siamo noi. Noi siamo in un lembo di terra come tanti collocato nel mondo. La città la indossiamo come un abito interiore, noi siamo la nostra idea, la nostra memoria, la nostra interpretazione della città. Lei è fuori e noi ci stiamo dentro.
È questa città che non possiamo dimenticare e non possiamo tradire in un mondo globale che non è più locale. Sta ai nostri occhi vedere gli orizzonti, oltrepassare gli argini del fiume.
Ferrara è bella perché è un respiro, non è un’isola. Le sue porte sono aperte alla cultura e da sempre portano cultura. L’unico esercito che le serve per difendersi è quello dei saperi: l’intelligenza, il dialogo, la comunicazione, la ricerca, la creatività, l’arte e le idee. Di mura la città ne ha già abbastanza, non serve alzarne delle altre da sbrecciare ancora una volta.
È la conoscenza ad essere ora al centro dello sviluppo economico e sociale, la conoscenza dei nuovi saperi, delle più recenti conquiste della scienza, la conoscenza delle persone che vengono dagli altrove, lontani, distanti culturalmente per esperienze di vita, per modi di pensare, costumi e modi di vedere. Un fermento. Il fermento, non la stasi delle chiusure, delle difese, delle trincee.
È solo con questa sfida a conoscere, a conoscersi, a riconoscersi reciprocamente, nel nuovo e nell’inaspettato che il presente può impastare il futuro. Per tutto il mondo l’avvenire è nella società della conoscenza e nel progresso delle economie della conoscenza.
Invece sembra che sia proprio la conoscenza ad essere il nostro nemico. Pare che abbiamo paura del sapere, di conoscere, di scoprire che c’è un futuro che ci costringe ad abbandonare il passato, abbiamo timore ad inoltrarci nel futuro. Preferiamo ignorare nel sospetto che il sapere ci porti via parte delle nostre certezze, delle nostre sicurezze, ci costringa a rimetterci in discussione, ad aprirci, a confrontarci, ad utilizzare gli strumenti dell’intelligenza, che non sempre abbiamo o sappiamo gestire, addirittura paventando di impadronircene.
Alla fine la risoluzione che sembra più percorribile e sicura induce a stare dove siamo, anzi a tornare indietro, a come eravamo, quando pensavamo di godere di un lavoro sicuro, di un ambiente più pulito, quando stavamo a casa nostra senza che nessuno bussasse per chiedere ospitalità. L’ossimoro della crescita nella decrescita felice.
Ma la storia non si tira mai indietro, alla fine non è la storia che è fuori, siamo noi ad essere fuori della storia. Chi pensa di cambiare il corso degli eventi finisce solo con il ritardare gli appuntamenti dell’uomo con la storia, finisce per abdicare a quell’intelligenza che ci siamo conquistati con la ricerca, il sapere, il confronto e l’inventiva per fare la storia e non per subirla.
Si tratta di aprire noi stessi alle sfide, al nuovo, non credere a chi promette le ricette che già conosciamo, perché è di conoscenze e di strumenti nuovi che abbiamo bisogno, da ricercare e da conquistare tutti insieme, illudersi di avere davanti a noi certezze anziché sfide da affrontare e vincere è quanto di peggio ci possa accadere.
Il futuro della nostra città, la sua crescita e il suo sviluppo stanno tra chi crede di difenderla chiudendosi in casa sprangando porte e finestre, assoldando piantoni e chi invece ritiene che è necessario scendere tutti in strada a camminare insieme, a ricercare come percorrere uniti e solidali i nuovi itinerari disegnati dalla geografia del tempo e della storia, che luogo assegnare alla nostra città sulla nuova mappa del mondo.
Aprire non chiudere, aprire noi stessi, aprire la città. Scorrere come il fiume, offrirsi al mare aperto. Questo è quello che ci attende, o cogliamo questa sfida o la luce sul nostro futuro si spegnerà e ripiegheremo nello scuro delle caverne del nostro passato, illudendoci di essere sicuri e al riparo dal nuovo, dalla storia che procede, dai saperi che si moltiplicheranno celebrando la nostra ignoranza.
Una città è un’architettura di persone, di istituzioni, di imprese, nessuno oggi da solo ce la può fare. La conoscenza non è data ai singoli per i singoli, altrettanto vale per le istituzioni e per le imprese, la conoscenza è data per essere messa insieme, per essere condivisa, solo attraverso la collaborazione e lo scambio si può creare valore e nuove opportunità. Questo significa essere società della conoscenza, fare economia della conoscenza.
Ferrara necessita di compiere il salto da città della cultura a città della conoscenza. Città che facilita e promuove la collaborazione delle conoscenze e dei saperi tra amministrazioni pubbliche, industria, imprese, istituzioni, università, centri di ricerca, associazioni, artisti, creativi e altro ancora. Nella storia le città sono sempre state un centro naturale per lo scambio e il progresso della conoscenza. Pertanto, Ferrara città della conoscenza significa proporsi come il punto focale delle conoscenze per lo sviluppo, di una rete con le realtà intorno, con le altre città, aziende e fornitori di servizi di conoscenza, una rete di conoscenze globali in crescita. Nessuna città sa tutto, attraverso la rete ogni partner può accedere meglio alla conoscenza degli atri: città, soggetti e istituzioni.
Si può scegliere di entrare nella conoscenza o di uscirne, restando ai margini. Questa è una scelta che Ferrara deve compiere: se aderire alla rete mondiale delle città della conoscenza, contribuendo in modo significativo alla creazione dell’Agenda globale della conoscenza per lo sviluppo, per i diritti umani, della conoscenza come risorsa per la ricchezza, la pace e la sostenibilità nel mondo.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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