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È una mania questa che bisogna sempre tornare al passato per andare avanti, succede immancabilmente tutte le volte che si parla di educazione. Non c’è epoca che l’educazione non sia stata oggetto di critiche, senza, come già osservava Rousseau, che nessuno si risolva mai a proporne una migliore. E come ai tempi del ginevrino pare che anche noi tendiamo molto più a distruggere che a costruire.
Ancora una volta Susanna Tamaro, a proposito degli ultimi eventi di aggressioni scolastiche e di bullismo, dalle pagine del Corriere della Sera, lamenta il tramonto dell’educazione, invocando più autorevolezza e “un generoso, appassionato ripristino della cultura”, diversamente la condanna sarà allevare tanti irrecuperabili ragazzi selvaggi come il Victor del dottor Itard, immortalato dal film di Truffaut.
Sostanzialmente per la Tamaro i guai prodotti dalla nostra cattiva educazione discendono da quel Rousseau e dal suo Émile che ricorda d’aver studiato sui banchi delle magistrali negli anni settanta.
Secondo la Tamaro neppure tra i nostri cugini primati antropomorfi sarebbe permesso ad un adolescente quello che noi consentiamo ai nostri, tutta la società degli adulti interverrebbe per rimetterlo in carreggiata. Insomma un po’ di autorevolezza manesca, sebbene contenuta, non guasterebbe, un’autorevolezza che si ispirasse al kyosaku, il bastone usato dai maestri zen per risvegliare la coscienza degli allievi assopiti o distratti durante il tempo della meditazione.
Per natura, quando i problemi si fanno complessi, non mi piacciono le scorciatoie. Se il problema è complesso vuol dire che anche la soluzione non può essere semplice, non c’è rasoio di Occam che ti possa aiutare.
Bisognerebbe dimostrare che i nostri ragazzi di oggi sono più selvaggi di quelli di ieri, cosa facilmente smentita dalle percentuali di scolarizzazione raggiunte rispetto a passati anche recenti.
Fino agli inizi del secolo scorso era diffusa la convinzione in campo pedagogico che a corrompere la natura dei ragazzi fosse la città. La campagna era considerata l’ambiente ideale per far crescere i bambini, la Natura l’unica fonte affidabile di moralità, fino a ritenere che l’allontanamento del bambino dalle salutari influenze della Natura avrebbe prodotto l’aumento delle possibilità di finire nei guai e di darsi al crimine. La sicura influenza della vita di città sulla personalità di un bambino avrebbe come minimo cresciuto in lui la mancanza di rispetto.
Ora, nel ventunesimo secolo, lontani come siamo dalla Natura nella nostra corsa all’inurbamento e all’inquinamento, non è più la città a corrompere gli animi delle giovani creature, ma pare che siano internet e i social, unitamente ad una dilagante abdicazione educativa.
Ogni epoca, evidentemente, cerca i suoi capri espiatori, quando qualcosa non funziona nei comportamenti dei suoi figli.
Ma il problema è sempre quello del rapporto tra natura e cultura, perché di questo si tratta, da questo non si sfugge, essendo ognuno di noi il prodotto di questa interazione. Solo che la natura con il tempo non è cambiata, la cultura invece sì, e non servono i rimpianti o le retromarce, perché la forza della cultura è quella di andare avanti e di prepararsi a sempre nuove sfide.
Quello che ci manca è una nuova cultura della relazione educativa, non serve copiare ricorrendo all’etologia o riproponendo passati improbabili, già questo denuncia la nostra debolezza e fragilità rispetto alla riuscita nel compito nuovo che ci si prospetta davanti.
“Tutto è bene quando esce dalle mani dell’Autore di tutte le cose, tutto degenera tra le mani dell’uomo”. Con queste parole prende l’avvio l’Émile di Rousseau. Come dargli torto, quando l’educazione pretende di forgiare il bambino secondo un modello precostituito, quando da sempre le società si assicurano il futuro educando i giovani secondo il loro modello. Come minimo l’educazione va in crisi quando quel modello di società entra in crisi a sua volta, come è il caso dell’epoca che stiamo vivendo.
L’ Émile non è una pagina di pedagogia anarchica, ma la proposta di un’educazione che anziché forgiare l’individuo a immagine e somiglianza di una società e della sua cultura, che possono essere anche errate e negative, che sono inoltre destinate a essere mutevoli, vuole suggerire l’idea di un’educazione che fornisce gli strumenti affinché ognuno possa crescere, essere cioè il creatore di se stesso. In questo senso l’Émile è un saggio di educazione libertaria, perché liberatrice, non a caso ancora oggi in nessuna delle nostre società democraticamente evolute ha trovato cittadinanza.
A Rousseau va il merito di aver riconosciuto per primo l’importanza del rapporto tra natura e cultura e come dalla qualità di questa cultura dipenda il nostro destino di uomini nella società.
E allora quando Susanna Tamaro invoca un generoso e appassionato ripristino della cultura, dimostra di non aver compreso che non è di ritorni al passato che l’educazione d’oggi ha bisogno, ma di cultura nuova, che ancora non abbiamo e alla quale neppure i così detti intellettuali del nostro paese dimostrano di essere in grado di contribuire. E, dunque, poi perché stupirsi?
Si nasce che non possiamo sceglierci né i genitori né le condizioni economiche, neppure il paese dove vivere, ora almeno ci lasciassero la libertà di crescere, aiutandoci a trarre il meglio da ciò che possediamo, da ciò che siamo, che è il nostro patrimonio di natura. La cultura serve a questo, a darci il meglio, non a piegarci, non a modellarci secondo immagini umane disegnate a prescindere da noi. Se vogliamo sconfiggere la prepotenza di ragazzi e di adulti è necessario che la prima a non essere prepotente sia proprio l’educazione.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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