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Ciò che sfugge ormai alla nostra coscienza è cosa siamo, cosa stiamo diventando. Quanto ancora siamo liberi di essere gli autori di noi stessi? Quanto siamo in grado di mantenere la distanza da Vespa che intervista il figlio di Riina e da quanti gridano allo scandalo? Siamo ancora nelle condizioni di poterci muovere avanti e indietro per mettere a fuoco la vista?
Dobbiamo apprendere a misurarci con le convulsioni comunicative della nostra società democratica, che è tale anche perché tutela il diritto di fare informazione senza bavagli e censure. Intanto imparando a non confondere i sintomi con le cause, perché sarebbe come se, colpiti da una malattia, continuassimo a lagnarci di stare male senza provvedere a curarci. È proprio la cura che ci manca. La capacità di prendere le distanze, di procurarci gli anticorpi.
Dovremmo interrogarci su come la mente collettiva sta prevaricando le menti individuali, le nostre vite private. Nessuno trova che sia una violenza insopportabile, oltre che impunita, il martellamento quotidiano della pubblicità che fuoriesce da tutti i buchi e schermi possibili, una sorta di patologia globale invasiva della nostra società, una malattia endemica. È più facile non accendere la televisione sul gossip di Porta a Porta che liberarsi di questa condanna, di questo progressivo e inarrestabile lavaggio delle menti.
Quanto l’elaborazione delle immagini interne imposte ai nostri cervelli dal villaggio globale condiziona il nostro rapporto con il giudizio, con la realtà? Quanto ostacola e limita la nostra capacità di accesso ai fatti, quanto ci impone di raccontare un mondo complesso con un vocabolario sempre più inadeguato, sempre più povero?
Si chiama metaconoscenza il ragionare sulla conoscenza, sul funzionamento cognitivo nostro e degli altri, su come se ne diventa consapevoli e su come tenerne conto.
Essere cittadini della conoscenza è questo: non farsi educare, ma essere educatori di se stessi. Qualcuno, tempo fa, forse ricorderete, l’ha chiamato: “l’uomo nuovo”. Non solo potersi muovere liberamente nel mondo di fuori, ma anche essere altrettanto liberi di muoversi nel mondo di dentro. Non averlo adulterato dagli altri.
Quante convinzioni portiamo stupidamente con noi per la presunta superiorità della nostra visione. Dovremmo incominciare a fare la pedagogia di noi stessi e rifuggire dalla pedagogia che ci vogliono imporre da fuori. Pare che tutto intorno a noi sia educante: lo Stato, la televisione, il lavoro, la scuola, la comunità.
Solo sant’Ambrogio difende il prigioniero della caverna platonica che decisamente si rifiuta di volgere il capo. La questione è che noi invece continuiamo ancora a illuderci di averlo fatto.

Nulla gioverebbe alla nostra visione del futuro quanto trattare della qualità e della posizione del presente. Qual è la nostra opinione intorno al mondo? Se siamo in grado di averne una che sia nostra e non sempre di seconda o terza mano. La vera battaglia democratica, liberatoria, sta proprio nel riappropriarci della conoscenza, farne un processo che ci appartenga, sottrarla ai luoghi della sua manipolazione, della sua confezione, per poi vendercela come merce buona. Siamo immersi nella finzione e la prendiamo per vera. Così ogni giorno conviviamo con la finzione di noi stessi, perdendo di vista ogni autentico sapere, ogni apprendimento. Tutto si riceve già impacchettato dalla scuola, dalle università, dall’informazione.
Solo questo dovrebbe essere sufficiente a farci comprendere che la conoscenza, come avviene, come si raggiunge, chi la possiede e la distribuisce, è la vera grande questione di questo nostro millennio.
Viviamo di idee, di immagini, di pensieri il cui nutrimento è l’esperienza che si fa sapere. Ma tutto accade là, fuori di noi, e per questo è difficile da comprendere. Le spiegazioni che altri ci forniscono, che cucinano le agenzie a questo deputate, producono la cosiddetta opinione pubblica, spesso scadente, eppure la prendiamo per buona.
Sempre solo spettatori del mondo spettacolo, del mondo scena e retroscena, del mondo grande schermo televisivo. Finzione e realtà, realtà e finzione, l’eterno pirandelliano, il teatro dell’assurdo di Beckett e Godot. Non siamo attrezzati per affrontare tante sottigliezze, tanta varietà, tante mutazioni e combinazioni. Dobbiamo possedere le carte geografiche per orientarci, costruire le mappe della nostra esistenza.
All’articolo uno della nostra Carta costituzionale, dopo la parola “lavoro” dovremmo aggiungere “conoscenza”. Una Repubblica democratica fondata sul lavoro e sulla conoscenza. Perché l’uno è indispensabile all’altra, perché senza l’uno e l’altra non c’è cittadinanza, non c’è sovranità né sociale né individuale.
È ciò che è mancato alla Rivoluzione francese. Anche noi come Josif Brodskij scriviamo: “Liberté, Égalité, Fraternité…Perché nessuno aggiunge Cultura?”.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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