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Mi scrive l’amico Andrea Strocchi di Promeco per segnalarmi il convegno che si terrà ad Argenta al teatro dei Fluttuanti la mattina dell’8 settembre dal titolo, volutamente provocatorio, ‘La guerra dei trent’anni: scuola-famiglia, una relazione da ritrovare’.
E intanto, non contento del titolo ‘provocatorio’, mi piazza lì una domanda formato extralarge, aggiungendo che era tempo che covava l’idea di farmela: “Come è stato possibile che dai decreti delegati siamo passati alla situazione attuale?”
Non sono un sociologo, sono un uomo di scuola ed è da questa prospettiva che posso tentare di rispondere.

Nel caso del rapporto scuola-famiglia non c’è richiamo più attinente di quello ai Decreti delegati del 1974 che hanno dato vita agli organi collegiali con l’intento, dichiarato dall’articolo 5 della legge delega del 30 luglio 1973, n. 477, di dare alla scuola stessa “i caratteri di una comunità che interagisce con la più vasta comunità sociale e civica”.
Questo ritengo sia il tema intorno al quale meriti interrogarsi. Mi sembra anche l’obbiettivo che in gran parte è stato mancato. Si trattava di vincere la strutturale separatezza tra scuola e società, “in modo da sconfiggere fino in fondo la vecchia concezione della scuola come corpo chiuso, che gelosamente si difende, in nome di una ambigua autonomia, dagli influssi progressivi della società” (G. Napolitano, ‘Scuola, lotta di classe e socialismo’, Editori Riuniti, Roma, 1971, pp. 55-56).
Il problema del rapporto scuola-società, che oggi andrebbe inteso con il respiro dell’istruzione permanente e della società della conoscenza, è un problema di democrazia nella vita e nel governo della scuola che non può essere ridotto al deformante binomio scuola-famiglia, è il processo, riassunto nella formula della gestione sociale della scuola, che avrebbe dovuto essere sollecitata continuamente attraverso molteplici iniziative e interventi.
Ancora oggi non è sopita, o comunque sempre latente, la polemica sul significato da dare alla istituzione degli organi collegiali di governo della scuola, perché diverse sono le interpretazioni sugli sviluppi da dare alla gestione della scuola.
Le frange del mondo cattolico, quelle più integraliste, vedi l’AGe, l’Associazione Italiana Genitori, da sempre sostengono che il logico sviluppo del concetto animatore dei decreti delegati avrebbe dovuto portare alla restituzione della scuola alla comunità dei cittadini in modo che ogni ideologia possa darsi la scuola che preferisce.
È in questo contesto che assistiamo ai richiami alle cosiddette scuole libere, oggi alle homing school, alle charter school e altro ancora, dove il libero sta per privato in opposizione a statale perché “lo Stato non deve educare nessuno”.
In questo senso parlare di guerra dei trent’anni a proposito del rapporto scuola-famiglia non è poi così provocatorio, visto che di guerra di religione si tratta.

Nel frattempo altre ideologie si sono andate affermando che nello spirito della libertà di scuola brandiscono il diritto al No vax, No mensa, No gender, No compiti, No handicappati e No immigrati che ritardano l’apprendimento della classe.
Non era questo lo spirito dei decreti delegati il cui sforzo fondamentale è stato quello di liberare l’organizzazione scolastica dal burocratismo e dall’autoritarismo che avevano portato al movimento studentesco e alla Lettera ad una professoressa dei ragazzi di Barbiana alla fine degli anni sessanta e che negli anni successivi produrranno una più matura richiesta di rinnovamento da parte di tutte le componenti della società.
Che la scuola fosse un corpo separato non è una affermazione estremistica, valga come esempio dei rapporti scuola-famiglia, precedenti i decreti delegati, l’art. 354 del Regolamento Generale del 1928: “Intorno al portamento, allo studio e alle assenze degli alunni il maestro informa i parenti quando lo crede opportuno o quando ne sia richiesto, e, in ogni caso alla fine di ciascun trimestre con la pagella”.
“Quando lo creda opportuno o quando ne sia richiesto” era la norma, in caso contrario alla fine di ogni trimestre e alla fine dell’anno con la pagella.
Con i decreti delegati la scuola si è liberata dei vecchi atteggiamenti che volevano insegnanti arbitri assoluti della vita scolastica dei loro allievi, unitamente a genitori timorosi, passivi spettatori di una serie di riti che si concludevano alla fine di ogni anno scolastico con i promossi e i bocciati.

Che dire? La relazione scuola-famiglia non è mai stata delle migliori. L’esperienza dei decreti delegati osteggiata e abortita. Le promesse di correggere errori e storture mai mantenute e intanto si sono persi importanti pezzi come i distretti scolastici e i consigli scolastici provinciali, che in altre parti del mondo funzionano e svolgono un ruolo importante.
Le ragioni non hanno bisogno di essere ricercate molto lontano, semplicemente perché siamo un paese che non ha mai imparato a prendersi cura della Scuola, perché la religione prevalente di questo paese è sempre stata antistatalista, fino a divenire una cultura diffusa, inoculata con l’aria che si respira.
Scuola e famiglia sono microcosmi che, nonostante gli appelli alla collaborazione e alla firma dei patti di corresponsabilità educativa, non hanno mai trovato un equilibrio. Le diffidenze reciproche non sono mai venute meno.
Penso inoltre che meriti sottolineare come all’indomani dei decreti delegati l’evoluzione della famiglia, dei suoi modelli e delle sue culture sia stata molto più veloce di quanto la scuola sia stata in grado di adattarsi ai cambiamenti imposti dalla società e dall’autonomia scolastica, spesso accolta con resistenza più che come grande opportunità per procedere al proprio rinnovamento e rispondere ai bisogni formativi degli allievi e del territorio.
La scuola non ha mantenuto la promessa di essere un ascensore sociale, né è stata in grado di modellare la sua offerta sui bisogni dei singoli, come ormai ciascuno di noi rivendica nell’accesso ai servizi.
Eppure anche sondaggi recenti ci dicono che le famiglie credono nella scuola pur essendo critici nei suoi confronti, tanto che per un italiano su due il problema più grave della scuola è la qualità dell’insegnamento, in particolare “i metodi di insegnamento” (incoraggiare a fare domande, spiegare bene, interessare l’allievo) e “l’adeguatezza degli insegnanti”. Non c’è, dunque, da stupirsi delle difficoltà di relazione tra scuola e famiglia se non la pensa così il 78% degli insegnanti, per i quali i problemi più gravi sono il precariato e gli stipendi troppo bassi.

Come ritrovare una “relazione” tra scuola e famiglia? Sarei tentato di rispondere descolarizzando la scuola e ‘defamigliarizzando’ la famiglia, ma il discorso a questo punto si farebbe troppo lungo. Mi limito ad una ricetta che farà arrabbiare qualcuno: avere professionisti di alta qualità, credibili, capaci di motivare e coinvolgere. Mi sembra il suggerimento più ‘donmilaniano’ a cinquant’anni dalla sua scomparsa.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

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