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È passata più di una settimana dalla grandissima notizia del Nobel per la letteratura a Bob Dylan.
Coi ritmi attuali non è neanche più una notizia.
Ma Bob Dylan dei ritmi – e anche dell’attualità – se ne frega da sempre.
E infatti per un sacco di motivi siamo qua a parlarne.
Bob Dylan è infatti più o meno irreperibile, anche se forse sarebbe il caso di dire che Bob Dylan continua a fare “Bob Dylan”.
Non so quanto senso possano avere “Bob Dylan” e “prima persona” nella stessa frase ma in una settimana il nostro uomo non ha commentato minimamente questa notizia che lo riguarda più o meno in prima persona.
Non ha risposto ai tipi del premio Nobel e beh, è successo: questi tipi del premio Nobel si sono stancati così tanto da rinunciare a ogni altro tentativo di contattarlo.
Schiaccia il 5, Bob!
Personalmente trovo questa cosa meravigliosa, una dylanata di quelle classiche.
E personalmente sapevo che Dylan – nonostante il Papa, gli spot ecc. – è ancora il solito vecchio bastardone.
Bastardone in senso nobile, nobile come la tradizione di dylanate a cui ci ha abituati da sempre.

Riassumo brevemente:
1.
Bob Dylan vince un premio radical chic mi pare nel 1964, una roba per i diritti civili consegnato alla presenza di gente come James Baldwin e altri personaggioni di quel calibro.
Bob Dylan ci va – si presenta mi pare coi sandali ai piedi – e ci va sbronzo.
Quindi attacca un discorso delirante che arriva a tirare in ballo addirittura il cadavere ancora caldo di JFK, poi a un certo punto se ne esce con una cosa come “io capisco quell’uomo, Lee Harvey Oswald”.
E lo capisco anch’io ma questa è un’altra storia.
Ovviamente quella volta è successo un gran casino e Dylan – uomo che all’epoca era una bandierina per tutti quei “tipi dei diritti civili” – dovette chiedere scusa ai comprensibilmente sconvoltissimi radical chic, lì, i tipi dei diritti civili.
2.
Bob Dylan si presenta al Newport Folk Festival vestito di pelle con la Strato al collo e una band elettrica, la Paul Butterfield Blues Band.
Ovviamente succede di nuovo un bordello e questa cosa è passata alla storia come “la madre di tutte le dylanate”, con annessa leggenda che coinvolge Pete Seeger, un’accetta, i cavi della corrente, i “buuuuuuuu!” di tutti i puristi folkettari che lo accusano di tradimento, Dylan che torna sul palco con la chitarra acustica e suona “It’s All Over Now, Baby Blue” con dei lacrimoni che gli solcano le guance proprio come succede in tutti quei cartoni giapponesi.

Ma non finisce qui.
3.
Qualche tempo dopo, a Manchester, nel 1966, Bob Dylan suona il concerto che diventerà il suo “Bootleg Series Vol. 4”.
Il posto è quello in cui 10 anni dopo passeranno – ma dalla sala al piano inferiore – i Sex Pistols per quel celebre concerto davanti ai celebri 15 stronzi che pogano da soli.
15 stronzi che poi, folgorati, combineranno tante cose nella vita: Joy Division, Fall, Smiths, la Factory Records e (dio, che schifo!) i Simply Red.
Scusate per queste parentesi ma non sono a caso.
Perché quel concerto di Dylan a Manchester, forse più di quello di Newport, è quello che consegna all’eternità il “Dylan punk prima del punk”.
Ma mica perché l’altra volta si è messo a piangere, sia chiaro.
I punk piangono, dio solo sa quanto piangono, e anche Dylan lo sa.
Lo sa benissimo e infatti, nel frattempo, Bob Dylan si è trasformato in un dito medio ambulante ma elegantissimo, con i suoi bei pantaloni di velluto, i beatle boots, le camicine, i Ray-Ban e la pettinata riccia là sopra in cima a questo nanerottolo che ormai è appunto un gran dito medio antropomorfo.
Una specie di albero di Natale in negativo firmato dal Grinch, a cui tra l’altro Dylan somiglia anche un bel po’.
Un dito medio che – proprio come il punk rock – superficialmente sembra rivolto a tutto e tutti con superficialità, anche se per come la vedo io non è esattamente così.
Questo dito medio è un dito medio rivolto alla bassezza, alla pigrizia e alla passività della razza umana.
Insomma, la stessa cosa che sarebbe successa 10 anni dopo, quando Johnny Rotten scrisse Anarchy in the UK perché – parole sue – “se scrivi un pezzo come Anarchy in the UK non odi gli inglesi, li ami e gli vuoi tirare un bel calcione nel culetto.
Parole sante.
Ma questa è un’altra storia.

Comunque per tutto quel tour Bobbo fa due set, uno acustico e uno elettrico con gli Hawks come band, ovvero la band che diventerà The Band.
Quell’album io l’ho consumato, e devo dire che è uno dei miei album preferiti di Bobbo e non solo.
Il set acustico è suonato da dio, una roba che rende davvero bene l’idea della gigantezza di Dylan come musicista.
Perché ok, Dylan e i testi blah blah blah, lo sappiamo tutti.
Ma Dylan è prima di tutto un musicista, non è uno di quei tipi con la chitarrina tenuta lì sulla gamba solo per giustificare delle verbosità inutili.
Quindi Bobbo fa il suo set acustico suonando da dio ma biascicando e sputacchiando i suoi pezzi, fatto come il copertone che ha davanti in quella celebre foto del 1963.
È una registrazione in cui il silenzio della sala entra ed esce dall’armonica e dalla buca della chitarra in un modo che certi professorini come John Cage e boh, Brian Eno si sognano e si sogneranno per sempre, alla faccia dell’ambient, della musique d’ameublement, del foie gras, della baguette e anche del pamplemousse.
Perché questo è Bob Dylan nella sua fase più rock’n’roll e quando il rock’n’roll si mette d’impegno, mutante o non mutante, tutto il resto rimane, com’è giusto che sia, letteralmente in mutande.
Poi pausa, arriva il secondo set, e il secondo set è praticamente una roba garage rock quasi alla Nuggets.
Troppo garage rock e infatti proprio prima di “Like a Rolling Stone” succede di nuovo.
Uno del pubblico urla “JUDAS!” e tutto questo è immortalato per l’eternità.
Non so come si possa sentire quel cretino che urlò “JUDAS!” ma probabilmente se è ancora vivo si sentirà come il cretino che è.
Gli faccio comunque i miei più vivi complimenti perché per come la vedo io se una cosa ti fa profondamente cagare hai tutto il tuo sacrosanto diritto di urlarlo a pieni polmoni.
Così come Dylan ha avuto tutto il suo sacrosanto diritto di freddarlo rispondendogli “I DON’T BELIEVE YOU, YOU’RE A LIAR”.
E poi, proprio come quella cagna di Laika, decolla una “Like a Rolling Stone” che proprio come quella cagna di Laika esplode nello spazio.
Tutta questa mitologia è ampiamente documentata, sviscerata, analizzata, reperibile a tutti e ormai anche un bel po’ redditizia.
Sembra quasi studiata a tavolino, studiata anche meglio di quella roba dei Sex Pistols “studiati” anni dopo a un altro tavolino da Malcolm McLaren.
Ma questa è un’altra storia.
Ad ogni modo – a parte i prosciuttari che si ostinano a vedere Dylan come l’uomo di “Blowin’ in the wind” – direi che abbiamo capito tutti che Dylan è ancora quel Grinch imbacuccato da dito medio del 1966.
Sono cambiate solo delle cose che per me sono di poco conto come:
-ha 75 anni
-ha la petta
-ha i baffetti
-ha una voce ancora più stronza
-fa una vita, se possibile, ancora più appartata.
Ed è per questo che la sua scelta di non cagare minimamente i Sigg. vecchi bacucchi del Nobel è una cosa meravigliosa che quasi mi commuove.
È (e tre!) una cosa perfettamente coerente con un uomo che ha fatto della coerenza – quella vera, liquida come noi esseri umani fatti per una percentuale boh di acqua – una bandiera, l’unica bandiera in cui dal 1960 circa ha deciso di avvolgersi.
Senza stare a fare delle menate come Jean-Paul Sartre con quel suo “mi si nota di più se lo rifiuto o se vado là e faccio una scoreggina”.
Bob Dylan è attualmente in tour, ha scelto di vivere come prima e gli svedesi hanno smesso di rincorrerlo.
Nessuno sa se il 10 dicembre andrà dal Re di Svezia o ci manderà qualcuno vestito da Barney il dinosauro.
Figuriamoci se lo posso sapere io.
L’unica cosa che so è che questo 18 ottobre Chuck Berry ha compiuto 90 anni.
L’uomo che per primo ha fatto una scelta pesante decidendo di aggiungere della ciccia alle “parole delle canzoni”.
Se non fosse stato per quell’uomo e per quella sua scelta, molto probabilmente, in questo momento Bob Dylan sarebbe un anonimo professore di lettere in pensione se va bene, alcolizzato se va meglio, morto stecchito se va peggio.
Chuck Berry è stato il primo vero letterato in quell’universo in continua espansione che è la “musica pop” e questa cosa che magari può sembrare azzardata non la dico solo io, la dice gente ben più rispettata di me fra cui un Nobel (Dylan), un più o meno ex fattone a cui frega solo della chitarra (Keef) e un pesantone (Leonard Cohen).
Quindi ecco, mi sembrano 3 ca(ra)mpane pluralisticamente intonate, più la mia che è stonatissima, e allora buona camicia a tutti.

PS:
Giovedì scorso ho scommesso 5 €: Bob Dylan il 10 dicembre non andrà in Svezia e/o se andrà e/o manderà qualcuno e/o si deciderà a rispondere dirà qualcosa su Chuck Berry e/o gli farà spedire il Nobel come regalo per i 90 anni.
Io ci voglio credere.

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Radio Strike


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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