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Ed eccoci approdati al secondo capitolo de ” La Fabbrica della Felicità”. Domenica scorsa abbiamo descritto la fantasiosa fabbrica ideata dall’autore Nicola Farronato attraverso una breve recensione, l’introduzione e il primo capitolo della novella, che si può dire che sia una sorta di riassunto di tutto ciò che l’autore ha voluto trasmettere anche e soprattutto a livello contenutistico come rappresentazione utopistica di una nuova fabbrica che di fatto rappresenta la società civile.

All’interno di una fabbrica, esattamente come all’interno della società, ad ognuno corrispondono funzioni e ruoli da svolgere nel miglior modo possibile al fine di ottenere un funzionamento corretto. Della fabbrica e della società. O per lo meno così dovrebbe essere.

Ed ecco dunque il secondo capitolo de “La Fabbrica della Felicità” dal titolo “Reparti e funzioni”.

 

03:20 Reparti e Funzioni
Lucien in fondo aveva sempre sognato di fare l’architetto, sin da ragazzino. Ora però non si
trattava di tirare linee su piani inclinati, affacciati a grandi vetrate che davano su paesaggi senza
tempo. Il giovane era di fronte piuttosto alla possibilità di ribaltare le leggi dell’organizzazione
industriale più in voga al momento; di mettere in discussione un intero sistema fatto di rivoli e
correlazioni tra attori, operatori e consumatori, e per di più generare una nuova prospettiva da
condividere a partire da nuovi punti di riferimento. La fabbrica, nelle sue tavole, sarebbe stata il
centro della nuova catena della felicità. I dipendenti sarebbero diventati imprenditori; i manager
investitori e gli imprenditori orchestratori della felicità di questo nuovo ambiente.
Reparti e funzioni sarebbero stati ridisegnati in funzione di un nuovo equilibrio, che rispecchiasse
la massima resa delle attività di ciascuno in rapporto al tempo e alle emozioni.
I lavoratori avrebbero cambiato totalmente il loro modo di rapportarsi al lavoro prima, e alla
fabbrica poi, vedendola ora come un luogo sicuro dove poter coltivare le proprie ambizioni.
Alla mattina ci sarebbero stati da organizzare i turni di entrata con orari di apertura dei cancelli
scaglionati, così da far defluire il traffico di entranti che non vedeva l’ora di recarsi al proprio
posto, e da li partire a programmare la propria felicità. La fabbrica siffatta avrebbe attratto
comunità di giovani, che l’avrebbero ribattezzata a luogo d’incontro ed icona della rinnovata
aggregazione sociale di aspiranti uomini felici.
Il nuovo assetto avrebbe dovuto individuare i legami e le complementarietà tra due nuovi facce
della fabbrica: il parallelismo tra il suo lato verticale di luogo che produce formule della felicità
per i suoi lavoratori, e quello orizzontale di anello della catena del valore, che applica
esclusivamente principi di felicità totale nell’ambiente di lavoro. Subordinati, così importanti da
non poter essere i primi, i canoni classici legati alla produttività e alla ricchezza, quasi dati per
scontati rispetto alla creazione di nuove condizioni di impiego per le generazioni del futuro.
La fabbrica del futuro di Lucien era dunque fatta di imprenditori, che avevano sotto controllo
soprattutto la qualità emozionale della propria vita. Questa nuova condizione era necessaria
affinchè la loro identità di uomini consapevoli del valore del proprio tempo, li rendesse capaci di
scendere nei dettagli anche, rispetto alle forze che ne determinano e condizionano risultato e
composizione.
Non cambiava proprio nulla tra l’occuparsi della gestione, nella fabbrica della felicità, e
l’occuparsi della gestione della propria felicità. I reparti rappresentavano contenitori dentro ai
quali mettere le etichette del proprio tempo; in uno schema di organico disposto in modo da
rimuovere tutte quelle barriere che ostacolavano la collaborazione di massa e la felicità
distribuita.

La funzione principale della fabbrica diventava quella di occuparsi dei suoi primi e principali
clienti, i suoi lavoratori, monitorando e supportando quando necessario il raggiungimento della
gestione ottimale del tempo, in funzione alle loro rispettive identità.
La funzione principale della fabbrica si rivolgeva ora alla guida e al coordinamento di network del
valore sotto il suo cappello, all’interno dei quali la risorsa umana ritornava ad essere il fulcro
portante della creazione di benessere e ricchezza, che si riversava direttamente sulla società.
Il paradigma della produttività classico si spostava con la fabbrica della felicità verso nuovi
indicatori, nuove regole di misurazione del valore, che tenessero in dovuto conto di quei fattori
legati al tempo e alle emozioni che li avrebbero composti.
La nuova funzione della fabbrica toccava evidentemente la rieducazione al valore del tempo, asse
variabile che sin dall’antichità aveva dato non pochi rompicapi a stuole di pensatori.
Quel tempo che cambiava semplicemente passando; che trasformava percorrendo; che siglava
terminando; che sanciva partendo e che continuava trasformandosi, pareva a Lucien l’elemento
più difficile da posizionare nella sua tavola. Dopo averci pensato e ripensato, e speso notti che
somigliavano a giorni di veglia, la soluzione arriv , e dest non poco il giovane ò ò nel suo progetto: il
tempo non era una variabile. Era una costante!
Lo avrebbe preso come punto cardinale, stella polare del suo modello di fabbrica. E attorno a
questo punto disposto e fatto ruotare intuizioni di grandi progetti e contenuti di priorità; routine
che riempiono e sprechi che sfiniscono. Dei suoi lavoratori.
Un singhiozzo di emozione a questo punto lo destò, quasi a dargli il via a prendere matita e fogli,
e disegnare l’interno della sua fabbrica. Dividere gli spazi, disporre i dettagli, evidenziare i reparti e le loro funzioni.”

#it’salwaysagooddaytobehappy.

 

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Federico Di Bisceglie

Collaboratore de “Il resto del Carlino”, blogger su quotidiano online “Ildenaro.it” redattore Di “ferraraitalia.it”, marketing consultant for b-smark LTD Dublin. Studente di legge.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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