Skip to main content

L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Un’affermazione così forte, posta a fondamento della Costituzione, dovrebbe necessariamente spingere a riflettere sul significato profondo del lavorare e sulla dignità del lavoro nel nostro ordinamento civile. Parlare di lavoro però, di questi tempi, è quanto mai difficile. Specie se il lavoro manca, se si fatica a fronteggiare il flusso implacabile delle bollette e dei pagamenti mensili, se si deve cercare di vendere tutto per restare a galla. A maggior ragione se tocca subire il rito quotidiano della celebrazione del Pil e degli indici di borsa, l’insulto della glorificazione mediatica dell’iper-ricchezza, il bombardamento pubblicitario che invade ogni spazio, ogni luogo e ogni orario, per convincere tutti che solo il consumo è la via per raggiungere la felicità. L’attenzione sul consumo mortifica la dignità del lavoro rendendolo meramente strumentale, un mezzo che, in quanto tale, non porta con se né l’attributo della qualità né quello del significato.
L’Italia è (o è stata?) una Repubblica (democratica?) fondata sul consumo e, il lavoro, per chi ha la fortuna di averne uno ben remunerato, è il mezzo per ottenere il denaro necessario ad accedere all’acquisto di beni e servizi sempre più inutili e perciò stesso assolutamente indispensabili. Il lavoro espresso in termini di occupazione è una variabile sempre meno importante nelle equazioni che descrivono l’obbligatoria crescita del Pil e alimentano il feticcio intoccabile della crescita. E’ finita l’epoca del posto di lavoro fisso e garantito (che permane però come un miraggio nella mente di molte persone), è tramontata in buona parte l’idea del lavoro come investimento per costruire un futuro migliore che richiede anche fatica e sacrificio (molti lavori si rifiutano malgrado la crisi), è venuta meno la convinzione che il lavoro possa essere un mezzo per la realizzazione di sé attraverso lo sviluppo dei propri talenti.
Nell’era della flessibilità globale viene proposta la retorica del soggetto come imprenditore di sé stesso, libero di inventarsi un lavoro o, meglio, obbligato a competere e a combattere in un mercato al quale sono ormai attribuite funzioni trascendenti quasi magiche. Viviamo in società che producono più di quello che riescono a consumare, con uno spreco scandaloso, che riguarda soprattutto i beni essenziali, a cominciare dal cibo. Malgrado questo, o forse a causa di questo, i ricchi diminuiscono e diventano sempre più ricchi, i poveri aumentano e diventano sempre più poveri. Lo Stato – che dovrebbe garantire l’attuazione dei principi costituzionali – privato delle leve attraverso le quali poter agire nell’economia, trasferite all’Europa e ormai saldamente in mano alle forze finanziarie (private) che la dominano, non è più in grado né di ridistribuire ricchezza in modo equo ne di rilanciare e ridare dignità al lavoro. E intanto migrazioni bibliche riversano nel Belpaese un flusso incessante di persone ora attirate dai benefici e dei vantaggi di quel che resta dello stato sociale, ora impegnate nella ricerca con ogni mezzo dei denari per la sussistenza, raramente in grado di raggiungere il sogno di uno stipendio che, giudicato col metro dei paesi di provenienza, rappresenta spesso un’autentica fortuna economica.

Inesorabilmente, l’automazione distrugge posti di lavoro a un ritmo crescente; grandi infrastrutture tecnologiche e digitali sempre più integrate ed efficienti interconnettono sistemi e sottosistemi che a loro volta rapidamente si industrializzano e finanziarizzano. Le piattaforme produttive intelligenti e automatizzate consentono di produrre a costi così bassi da rendere svantaggiosa e inutile perfino la delocalizzazione, con conseguente impiego della manodopera sottopagata dei paesi più miseri. Siamo entrati, sembra, nell’epoca della fine del lavoro preconizzata ormai 20 anni fa da Jeremy Rifkin. Stiamo entrando, forse, nell’epoca della liberazione dalla schiavitù del lavoro anticipata dagli utopisti politici ma, paradossalmente, quello che potrebbe essere un sogno di prosperità prende le forme di un incubo, che apre davanti a milioni di persone il baratro della povertà, della paura e dell’insicurezza. Infatti, in barba ai dichiarati impegni verso le generazioni future, sembra mancare una visione comune di lungo periodo, che aiuti a riflettere sui modi attraverso i quali 7 miliardi di persone dovranno imparare a vivere, in pace, in questo nuovo mondo. Tra i detentori del potere nessuno sembra voler mettere in dubbio l’assioma della crescita illimitata basata sul materialismo irresponsabile e l’esaltazione dell’egoismo privato: nessuno di loro sembra avere pensato seriamente a come possa funzionare una società globale senza lavoro, nessuno vuole dichiarare pubblicamente l’ovvietà che le tecnoscienze si sposano altrettanto bene sia con il sogno utopico sia che con l’incubo distopico. Quanti di questi potenti palesi e occulti si saranno posti seriamente la fatidica domanda: che fare?
Se ancora si vive in democrazia questa domanda riguarda tutti. Vivere con una diversa idea di lavoro tutta da inventare, in un contesto caratterizzato dall’abbondanza di beni materiali, superando definitivamente la logica del consumismo bruto e la cultura dell’usa e getta, è una sfida che ricade direttamente nelle pieghe del quotidiano di ognuno. Per affrontarla serviranno grandi cambiamenti istituzionali oltre che un deciso salto nel livello di consapevolezza della persone. In una civiltà globale il cui ambiente è sempre più infrastrutturato e interconnesso dalle tecnologie digitali, che, in prospettiva, potrebbero favorire una migliore e più efficiente allocazione delle risorse e dei beni prodotti dall’industria integrata, a vantaggio di ogni abitante della terra, nasce l’esigenza di rivedere completamente l’idea di lavoro a cui molti di noi sono ancora legati. Per farlo bisogna però uscire da stereotipi consolidati e da logiche autoreferenziali dove siamo tutti più o meno intrappolati, bisogna imparare a guardare l’insieme senza perdersi nel confortante specialismo del particolare. Per abbracciare l’intero l’economista deve uscire dall’economia, l’uomo d’affari dalla finanza, l’imprenditore dalla sua azienda, il cittadino qualunque dal senso comune costruito dai media.

Se le macchine hanno sostituito gran parte del lavoro manuale, se poco alla volta diventano capaci di svolgere buona parte dei compiti cognitivi associati a molti lavori, se sono in grado di gestire processi sempre più complessi, è compito degli uomini (in particolare di quanti si occupano di politica) trovare nuove strutture sociali che consentano di trarne beneficio diffuso e condiviso. Se mancano posti di lavoro, bisogna individuare forme di remunerazione non fondate esclusivamente sul lavoro, invertendo un meccanismo secolare basato sul concetto di colpa, fatica e punizione (“ti guadagnerai il pane col sudore della fronte”), bisogna ripensare il lavoro come strumento generativo, capace di costruire relazioni e capitale sociale, bisogna recuperare l’idea del lavoro come atto amorevole del prendersi cura di qualcosa o qualcuno, assumendosene liberamente la responsabilità, bisogna imparare a vivere con pienezza l’ozio creativo, capace di generare senso e identità. Serve un uomo nuovo per vivere in questa nuova società possibile.
Intanto però, pensando al futuro possibile, bisogna riuscire a cavarsela: se la politica sembra far poco, se mancano i leaders e gli statisti capaci di guardare alle future generazioni, anziché alle prossime elezioni, se tutto sembra essere in mano a una finanza totalmente impersonale, e sostanzialmente amorale, ricordiamo che l’Italia è (anche) una Repubblica fondata sull’arte di arrangiarsi. Insieme alla creatività diffusa (che molti ci invidiano) e alla capacità di non perdersi d’animo, essa rappresenta quasi una virtù che, in tempi turbolenti, non è affatto da sottovalutare.

tag:

Bruno Vigilio Turra

È sociologo laureato a Trento. Per lavoro e per passione è consulente strategico e valutatore di piani, programmi e progetti; è stato partner di imprese di ricerca e consulenza e segretario della Associazione italiana di valutazione. A Bolzano ha avuto la fortuna di sviluppare il primo progetto di miglioramento organizzativo di una Procura della Repubblica in Italia. Attualmente libero professionista è particolarmente interessato alle dinamiche di apprendimento, all’innovazione sociale, alle nuove tecnologie e al loro impatto sulla società. Lavora in tutta Italia e per scelta vive tra Ferrara e le Dolomiti trentine.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

Periscopio è  proprietà di un azionariato diffuso e partecipato, garanzia di una gestitone collettiva e democratica del quotidiano. Si finanzia, quindi vive, grazie ai liberi contributi dei suoi lettori amici e sostenitori. Accetta e ospita sponsor ed inserzionisti solo socialmente, eticamente e culturalmente meritevoli.

Nato quasi otto anni fa con il nome Ferraraitalia già con una vocazione glocal, oggi il quotidiano è diventato: Periscopio naviga già in mare aperto, rivolgendosi a un pubblico nazionale e non solo. Non ci dimentichiamo però di Ferrara, la città che ospita la redazione e dove ogni giorno si fabbrica il giornale. e Ferraraitalia continua a vivere dentro Periscopio all’interno di una sezione speciale, una parte importante del tutto. 
Oggi Periscopio ha oltre 320.000 lettori, ma vogliamo crescere e farsi conoscere. Dipenderà da chi lo scrive ma soprattutto da chi lo legge e lo condivide con chi ancora non lo conosce. Per una volta, stare nella stessa barca può essere una avventura affascinante.  Buona navigazione a tutti.

Tutti i contenuti di Periscopio, salvo espressa indicazione, sono free. Possono essere liberamente stampati, diffusi e ripubblicati, indicando fonte, autore e data di pubblicazione su questo quotidiano.

Francesco Monini
direttore responsabile


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it