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A chi spettano le decisioni in una comunità di persone organizzate in Stato? Sono le considerazioni economiche o quelle di carattere politico a determinare la necessità umana? La decisione sovrana deve rispettare l’esigenza dei popoli o l’urgenza e i tempi del ricavo finanziario?
L’economia è solo una conseguenza delle azioni umane e lo è esattamente come il progresso scientifico che il politologo Francis Fukuyama vede come traino per il raggiungimento della democrazia liberale, il massimo a cui l’essere umano può aspirare come ha scritto nel suo saggio “La fine della storia e l’ultimo uomo”.
Io parto dall’idea che le aspirazioni di base e di necessità primarie degli uomini sono uguali ma poi, a differenza di tutte le altre specie viventi che a quel punto si fermano, divergono quasi su tutto e per questo abbiamo bisogno di un arbitro. Ne abbiamo bisogno per contemperare le pulsioni e per far sì che queste non diventino troppo distruttive.
Tutti abbiamo bisogno di mangiare, avere un riparo e allevare dei figli ma poi ci sono la poesia, l’ingegneria, la tecnologia, i viaggi, il vino del nonno e lo spumante di classe. Quindi c’è la legittima pretesa della distanza, dello spazio vitale e di crescita individuale, del rispetto. Ma c’è anche l’ingordigia e il desiderio della sopraffazione, dell’approfittare dello spazio e delle libertà altrui.
La democrazia liberale rappresenta il governo di coloro che riescono a far prevalere le proprie esigenze su quelle di tutti gli altri e plasmano l’economia in maniera tale che questa conduca e non segua le vicende politiche, perché l’economia è il mezzo attraverso il quale essi riescono a porsi in posizione di vantaggio e lo fanno anche con il continuo tentativo di superare le Costituzioni. Troppo impregnate, queste sconosciute, di giustizia sociale e di quella forma di organizzazione umana che potremmo chiamare socialismo illuminato, che nulla ha a che fare con il totalitarismo o la dittatura di qualcuno (popolo o élite) ma vuol dire semplicemente poter immaginare un mondo realmente democratico e governato dalla politica.
I periodi storici in cui è stata usata la politica economica Keynesiana potrebbe essere chiamata indistintamente capitalismo o socialismo di Stato. I vantaggi furono equamente e naturalmente distribuiti tra chi deteneva i mezzi di produzione e chi offriva forza lavoro, cosa pretendere di più?
Erano momenti in cui l’economia era appunto politica economica e funzionava. Fino a quando i pochi sono riusciti a togliere l’aggettivo e trasformare l’economia in un treno senza conducente e senza freni ma che, secondo la dottrina liberale e liberista, è guidato dalla logica della “mano invisibile” che persino il suo creatore, Adam Smith, riteneva imperfetta e bisognosa di controllo pubblico.
Nelle vicende di questi giorni il Ministro Di Maio sta facendo la Politica, cioè sta interpretando il bisogno di giustizia sociale che si leva dal popolo e il Ministro Salvini sta parlando alla pancia del Paese, cioè a coloro che hanno bisogno di pane e di soddisfare i loro bisogni primari tra i quali c’è quello di sentirsi tutti considerati allo stesso modo, di essere uguali nel loro diritto alla sicurezza e alla vita.
Il mercato e la borsa in questi giorni stanno riprendendo il posto che gli spetta nella storia, quello di venire dopo la “decisione sovrana” che spetta allo Stato rappresentato dai suoi ministri che, a loro volta, devono rappresentare i cittadini.
Ed è questo che mi è sembrato di vedere nell’ovazione ai rappresentanti di questo governo ai funerali di Genova, un’ovazione alla politica che per una volta e dopo tanti anni, sta mettendo loro, le persone, davanti agli interessi del denaro.
E finalmente sui giornali, dal fatto quotidiano al sole24ore, vengono riportate le vicende relative all’assegnazione delle concessioni delle autostrade che dovrebbero cominciare ad aprire uno squarcio di luce su tutta l’opera di privatizzazione e di (s)vendita di beni pubblici (cioè di beni di proprietà dei cittadini, dato che non siamo in una dittatura medievale).
Operazione che forse potrebbe aiutare a capire che la situazione di debolezza attuale dello Stato italiano è una diretta conseguenza di tutte le scelte scellerate che sono state fatte a partire dagli anni ’80 e ’90 da quel filone di pensiero a cui appartengono anche le persone che nonostante i funerali di questi giorni continuano a difendere a spada tratta le borse e i mercati, cioè l’economia. A difenderla come se questa fosse un essere soprannaturale che vive di vita propria e non una conseguenza delle scelte umane e una concessione della politica.
Paesi come la Germania o la Francia funzionano (apparentemente almeno) meglio di noi perché hanno mantenuto vivo un barlume di politica, con l’influenza sul credito (banche) per percentuali che vanno dal 55% al 35% mentre noi, a seguito della legge Amato degli anni ’90, passavamo dal 75% a zero partecipazioni nel settore bancario e contemporaneamente vendevamo aziende e autostrade.
Mentre loro tendevano al controllo di se stessi (e degli altri) attraverso la politica, noi facevamo dell’Italia una vera nazione a democrazia liberale, quella abbracciata dal PD, da Forza Italia e ovviamente dal potentissimo partito Radicale di Pannella e della Bonino (che nonostante striminzite preferenze da parte dei cittadini è stato più influente e vincente di partiti con consensi del 20% o 30% solo perché promuovevano la supremazia della BCE, dei mercati, delle politiche sovranazionali, delle privatizzazioni e del liberissimo mercato – insomma dei poteri forti – ed erano ben lontane dai reali bisogni della maggioranza del popolo).
Paesi come il Giappone, la Corea del Sud, Singapore o Taiwan non si sono evoluti e non hanno fatto faville in economia perché si sono affidati alla forza del mercato, come dice qualcuno che evidentemente ha studiato poco o finge, ma perché hanno diretto credito e investimenti, hanno sovvenzionato negli anni del boom le loro aziende nascenti facendo anche uso di protezionismo, hanno mantenuto asset strategici e hanno vinto mentre noi continuiamo a perdere.
L’Inghilterra della rivoluzione industriale, poi gli Stati Uniti ma anche la Svezia, oggi campioni di civiltà e sviluppo, sono passati attraverso il protezionismo sfrenato e hanno mantenuto la possibilità del controllo politico dei mercati attraverso il controllo delle loro banche centrali.
Come potrebbe uno Stato prosperare se non aiuta le proprie aziende e le famiglie a prosperare, quindi attuando politiche di credito agevolato, di protezionismo iniziale, di indirizzo e di controllo? Lo facciamo con i bambini, gli forniamo cibo, li facciamo crescere sani, studiare e solo dopo li lanciamo alla libera concorrenza. Come mai i fautori del libero mercato che solitamente confondono a piacere Stato e famiglia oppure Stato e azienda non utilizzano anche questo esempio?
Lo Stato deve essere presente, a difesa e ad attuazione dei dettami costituzionali, perché la democrazia deve essere costituzionale oppure non è democrazia. Nelle Costituzioni c’è scritto quello di cui i cittadini hanno bisogno e quello che vogliono dallo Stato, alla politica il compito di dare vita a quelle parole.
Il socialismo ha bisogno dell’unione dei lavoratori perché i lavoratori sono sfruttati allo stesso modo in tutto il mondo dai capitalisti, cantava l’internazionale socialista, ma ciò che la sinistra ha fatto è stato creare un lavoratore senza volto e senza anima che fosse ugualmente sfruttato in ogni luogo ma non direttamente dal capitalista bensì degli intermediari: la finanza, il mercato, le borse. Quindi i diritti dei lavoratori sono stati confusi ed identificati con la globalizzazione che alla fine glieli ha tolti, togliendogli anche un nemico visibile e attaccabile.
In questo modo siamo tutti finalmente e fintamente uguali, sfruttati e sfruttatori, operai a 1.200 euro al mese e concessionari di autostrade con terreni in Argentina più grandi di tutta la provincia di Treviso. Tutti uguali perché le regole le detta il mercato e non il capitalista o i sindacati né tantomeno la politica, relegata al ruolo di osservatore.
E invece non è così, non può esserlo, ma dovrà svegliarsi dal torpore chi ancora accarezza l’idea di essere al di sopra degli altri perché ha qualche soldo in più in banca, che vive della certezza che se c’è qualche milione di poveri in Italia è perché questi non sono in grado di cogliere le opportunità o non si impegnano abbastanza. Il torpore di chi si ritiene classe media, quella che piano piano sta scomparendo, è uno dei pericoli più grandi di questo tempo.
Le opportunità sono create dalla politica e sono opportunità senza mezze misure, dettate dai nostri bisogni reali e senza le indicazioni dell’economia che invece dovrà venire dopo. E si può fare rispettando anche le leggi della natura, del biologico, della prossimità, dell’accoglienza e del rispetto dei diritti di tutti.
Messa in sicurezza delle strade e delle autostrade, tante piccole opere di miglioramento dei territori, ricostruzione post terremoti e opere di ammodernamento e messa a norma anti sisma di edifici e strutture, quanto lavoro potrebbe dare? E non è forse attraverso il lavoro che dovrebbe misurarsi il benessere e il raggiungimento degli obiettivi di un documento programmatico? Non sembra lo sia in questo mondo, visto che invece viene misurato tutto in termini di rispetto di vincoli di bilancio.
Un approccio volto alla tutela delle persone e al rispetto della dignità umana porterebbe a investimenti continui, alla creazione di posti di lavoro, ad un ciclo virtuoso che potrebbe dare di più a tutti ma già si leva, forte, l’opposizione che agita le bandiere del 3%, del debito al 60% e rilancia i dubbi sulla reazione delle borse e dei finanziatori esteri. In realtà l’opposizione (solo di sinistra perché gli altri sono al posto giusto) dovrebbe passare più tempo a chiedersi: ma cosa c’entrano Salvini e Di Maio con il socialismo, le Costituzioni, la dignità del lavoro, la supremazia della politica sull’economia?

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Claudio Pisapia

Dipendente del Ministero Difesa e appassionato di macroeconomia e geopolitica, ha scritto due libri: “Pensieri Sparsi. L’economia dell’essere umano” e “L’altra faccia della moneta. Il debito che non fa paura”. Storico collaboratore del Gruppo Economia di Ferrara (www.gecofe.it) con il quale ha contribuito ad organizzare numerosi incontri con i cittadini sotto forma di conversazioni civili, spettacoli e mostre, si impegna nello studio e nella divulgazione di un’informazione libera dai vincoli del pregiudizio. Cura il blog personale www.claudiopisapia.info

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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