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di Sergio Fortini

A dispetto della sua storia, Ferrara è una città adolescente, intenta nel proprio percorso di autoconsapevolezza di limiti e risorse, a passo spinto in cerca di futuri. Il dibattito sul ruolo della città nei prossimi anni assume un significato ben più ampio delle mura cittadine e gli scenari potenziali di sviluppo corrono veloci come le vie d’acqua, cui questa città non ha mai prestato dovuta attenzione.
Entro questa lettura, l’idrovia diventa parte di un sistema complesso di cui l’acqua è memoria, motore e segno distintivo. Essa rappresenta un pretesto per riconfigurare la valenza di un territorio intero, del suo capitale sociale, economico, narrativo.
Per leggervi un futuro possibile, questa terra necessita di una visione di largo respiro. Sotto il profilo territoriale, la logica di tale visione è chiara: Ferrara non è solo una città di dimensioni medio-piccole con una provincia tra le più estese in Italia; Ferrara è un centro urbano metropolitano che ribalta il rapporto canonico tra nuclei antropizzati e paesaggio.
La Ferrara metropolitana è costituita da due polarità principali, il centro di Ferrara e il centro di Comacchio, agli estremi di una pianura che ospita un bilanciato rapporto tra edificato e ambiente naturale, dove i paesi si manifestano come punti di una rete a scala di quartiere, ognuno con proprie caratteristiche e mai troppo lontani dai due centri principali.
La visione che si intende proporre parte da una vocale, la ‘U’, già adagiata e leggibile sui bordi del territorio. Una ‘U’ d’acqua, margine netto e identitario almeno quanto poroso e attraversabile. Questo segno è formato, a nord, da un tratto del fiume Po e del ramo del Po di Goro che arriva al mare, a sud e verso est dal Po di Volano e dal canale navigabile fino a incontrare il mare a Porto Garibaldi; a ovest da un piccolo, fondamentale tratto di connessione, il canale Boicelli, che asseconda la Ferrara (che fu) industriale unendo i due assi precedenti. Quelli appena descritti sono dunque i bordi di un nucleo di area vasta che, attraverso l’acqua, informa di sé il territorio che lo separa dal mare: una città idropolitana.
La città idropolitana all’interno di questa ‘U’ ha dunque come bordi il Po e l’idrovia e come nucleo il territorio Unesco e tutto il sistema paesaggistico costituito da aree Sic, Zps, Rete Natura 2000 che popolano centinaia di ettari della pianura a est di Ferrara. Bordi come questi si prestano senza dubbio a un cambio di rotta nelle strategie di mobilità, poiché offrono le condizioni per un sistema di infrastrutture leggere impostato sulle vie d’acqua. Ogni bordo d’acqua può diventare in tal modo un asse portante da cui dipartono capillarmente assi di terra di potenziale rigenerazione, che puntano verso l’interno, calamitati da un territorio Unesco variegato e diffuso, così come da centralità storiche e agrarie di forte identità. Il capitale narrativo, in questo caso, è talmente presente ed eterogeneo da contemplare gli echi di un Bacchelli così come le sinuose fattezze di Sofia Loren; argini di lotte partigiane e umide terre di foce raccontate da Gianni Celati; ma anche i casali della bonifica, le tracce delle risaie, le ottuagenarie fabbriche dismesse sulla via del Travaglio, prove antesignane delle inquadrature livide di Antonioni, la necropoli di Spina. Ogni pezzo di queste terre sembra brulicare di racconti, di silenzi sedimentati, di opportunità latenti.
Gli scenari appena evocati sono già presenti, addormentati, nella Ferrara che conosciamo; tra i covoni della sua campagna ancora florida, lungo capezzagne sconnesse che portano a falsi argini, tracce di una assenza importante. L’acqua è presente anche quando non si vede: determina depressioni nel suolo, tiene in tensione raffinate idrovore, nutre differenze vegetazionali in tempi di arsura. Fino a questo punto, si sta descrivendo ciò che qualsiasi nonno di buona favella saprebbe raccontare, con parole più adeguate di queste, dalla sedia del proprio tavolo d’angolo all’intoccabile circolo, ex casa del popolo. Puntuale, suggestivo, forse ripetitivo. Però nessuna descrizione può cambiare le sorti. Le sorti iniziano a trasformarsi se si adotta una angolazione differente, focalizzata su un percorso storico, a dispetto nostro, già cominciato. Il percorso di una città che trova il completamento della propria forma nel suo territorio, una città che si bilancia sul patrimonio storico e artistico delle due polarità citate all’inizio (Ferrara e Comacchio) sostenute da una pianura ricca di differenze sottili, di segni poco appariscenti ma indelebili, di manufatti in attesa d’autore. Un territorio da declinare al ‘turismo’? Anche. Non fosse che è più corretto parlare di ‘turismi’, poiché esso è capace di assorbire famiglie est-europee in cerca di sole a basso costo, così come olandesi volanti su biciclette di ultima generazione; attempati studiosi che inseguono l’odore dei cappellacci di zucca tra le delizie estensi, o giovani etologi armati di digitali professionali in mezzo alle saline, vegliati da torri di guardia di epoca rinascimentale. Tutto ciò accade quotidianamente e trasversalmente alle stagioni, a Voghiera come a Mesola, a Sabbioncello come a Ostellato, a Codigoro come a Lido di Volano, o in un qualsiasi punto di questa pianura sotto il livello del mare.
Se l’amplificazione della portata turistica del territorio rimane un tema fondamentale, il vero obiettivo strategico, da svilupparsi su scala ventennale, è quello di porre le condizioni per una città-territorio abitabile e abilitante, dove chi risiede può vantare alta qualità della vita, disponibilità di lavoro, mobilità agile e sostenibile, molteplicità delle forme di svago e ristoro, connessioni veloci, fisiche e virtuali. Entro tale scenario, l’idrovia ha la possibilità di trasformarsi in acceleratore economico e sociale a scala territoriale, completando il sistema come asse infrastrutturale dolce, generatore di nuovi percorsi e opportunità. Quest’ultimo concetto è più facilmente comprensibile se ci si raffigura quella ‘U’ d’acqua descritta all’inizio non semplicemente come un flusso navigabile, bensì come un sistema complesso fatto di sponde più o meno permeabili che aprono la vista e la direzione sulle centralità territoriali, funzionanti o potenziali che siano. Non più una linea, dunque, ma un bordo con uno spessore che si allarga o restringe a seconda della porzione di pianura attraversata o delle eccellenze incontrate: una villa storica, un importante insediamento industriale, un percorso naturalistico vallivo, una pieve recuperata, un ex distretto produttivo, un borgo contadino.
La ricchezza di questa pianura sottoelevata è fatta, come i suoi abitanti, non di sparuti gesti eclatanti, ma di un insieme capillare di piccole centralità, attive o dormienti. Integrare le une e risvegliare le altre è un obiettivo possibile se il campo di azione è attraversato da una (infra)struttura portante, descritta all’inizio nella sua geografia, che accerchia il territorio e gli conferisce nuova linfa attraverso i percorsi che da essa si dipartono verso i nuclei abitati di pianura. Questa città-territorio si nutre di un rapporto invertito tra antropizzazione e paesaggio, dove il secondo vince per dimensione sulla prima. I nuclei principali si irradiano attraverso la pianura interna per mezzo di paesi e località direttamente dotati di luoghi di lavoro e agilmente connessi con le polarità principali, anche attraverso la via d’acqua.
Il problema della portata della sezione d’acqua è a questo punto relativo. Lungi dall’affermare che non sia fondamentale stabilire se e con quali equilibri puntare su una classe quinta europea o sulla nautica da diporto (o su un processo che organizzi la seconda come una fase antecedente alla prima); appare però più contestuale intendere il sistema d’acqua come un orizzonte di senso capace di riabilitare le potenzialità economiche e sociali delle nostre terre e di riaccenderne il capitale di arte, di paesaggio, di storia, di storie. Quello che oggi rappresenta una parziale attrattiva turistica, ancora non sedimentata nell’articolazione delle sue molteplici accezioni, è in realtà un territorio già ad oggi capace di calamitare l’interesse di filiere lavorative e gli investimenti di capitali internazionali. Non desti stupore se qualche grande nome, anche transnazionale, ci vaglierà come una città su cui investire. Ho scritto ‘città’ nell’accezione idropolitana con cui questo testo è iniziato, poiché quella giustapposizione di ambiti urbani, rurali e litoranei che noi indigeni tendiamo a sezionare e frammentare come realtà indipendenti e, spesso, non comunicanti, vista da oltre confine può apparire invece come città unica, con caratteristiche decisamente singolari e non rintracciabili in altri contesti europei. Se è vero che nelle città del mondo si stanno catalizzando processi di addensamento, proprio per le opportunità (di vita, di lavoro, di affezione, di relazione, di svago) che i tessuti urbani offrono a dispetto degli ambiti isolati, talvolta gli urbanisti si dimenticano di sottolineare che la ricerca della città non avviene per amore delle grandi quantità (di persone, di merci, di scambi), ma per una aspettativa di qualità generale del proprio vivere quotidiano. Diventa dunque più facile comprendere come Ferrara città idropolitana, vista da qualche chilometro di distanza e a volo d’uccello, possa assomigliare davvero alla prima metropoli europea in cui il rapporto tra tessuto urbanizzato e paesaggio è invertito, a vantaggio di quest’ultimo e, a parità di servizi e connessioni erogabili, a vantaggio della qualità della vita dei suoi futuri abitanti.
Ferrara, dunque, può strategicamente godere di un ribaltato rapporto con l’acqua, atavicamente ignorata, su almeno due livelli d’azione: promuoversi come città unica in Europa capace di orientare la mobilità su una ‘tangenziale di paesaggio’, un anello potenziale di viabilità lenta che contorna con le vie d’acqua l’ambito urbano su tre punti cardinali (il fiume a nord, il canale Boicelli a ovest e i rami del Po di Volano e di Primaro a sud), trovando compimento all’interno del nucleo urbano attraverso quella porzione tutelata di campagna che contraddistingue il centro storico nel quadrante nord-est e ricollegandosi al Po attraverso il grande polmone del Parco Urbano; proporsi come baricentro portante della città idropolitana, avamposto storico di un territorio plurale, geneticamente conformato per connettere punti diversamente eccellenti di un unico piano orizzontale, che corre verso il mare.
Ripenso alla carta geografica napoleonica del 1814: duecento anni dopo, quella capillare restituzione del territorio ferrarese dominato e regolato dall’acqua non è solo una affascinante testimonianza del passato; essa sembra suggerire una morfologia promettente, traiettorie che si aprono a nuove letture, generate da ‘quella sorpresa sempre risorgente che la lotta con il documento è la sola a produrre’, affermava Marc Bloch. Risorgente come l’acqua, i suoi significati, le sue prossime opportunità.

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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