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MOSCA – A dominare, il manifesto inneggiante all’anniversario ispirato alla pace con la colomba bianca su sfondo azzurro e l’istituzionale nastro di san Giorgio, arancione e nero (il “georgevskaja lentočka”), che, creato ai tempi della zarina Caterina (pare con i colori dello stemma dei Romanov), è diventato il simbolo della grande vittoria nella guerra patriotica e, oggi, vi il ero simbolo nazionalista russo.

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La medaglia per la vittoria sulla Germania nazista retta dal nastro di san Giorgio

Il 9 maggio si è tenuta la grande parata militare per il settantesimo della Vittoria, in una piazza Rossa gremita e soleggiata (uno dei pochi giorni di sole del mese di maggio). Celebrazioni iniziate alle 10, con solamente il cielo azzurro in grado di tirare su il morale a un presidente colpito dalla “sanzione delle assenze dei leader occidentali”, tribune vuote nei posti degli ospiti d’onore che hanno voluto ribadire il loro dissenso verso la politica del Cremlino. L’aver partecipato a cerimonie svoltesi in parallelo e successivamente alla parata ha in qualche modo lasciato intendere che si volevano comunque tributare omaggi ai caduti della seconda guerra mondiale, quella guerra che i russi definiscono “Grande guerra patriottica”, per sottolineare, fin dal primo giorno di belligeranza, la natura difensiva ed eroica della loro entrata nel conflitto. Costretti a proteggersi dall’invasione nazista, dal tradimento di un patto di reciproca non aggressione stipulato nel 1939 tra i ministri degli esteri tedesco e sovietico, Ribbentrop e Molotov. Un ricordo, comunque, di chi si è sacrificato, di chi è caduto, senza però sedere a fianco dell’istituzione che oggi li rappresenta. La parata del 9 maggio 2015 è stata annunciata come la più sensazionale della storia. E così sembra essere stato. Qualcuno l’ha definita una dimostrazione di muscoli e una carica di retorica, fatta di patriottismo, d’inno al coraggio e allo spirito di sacrificio ma anche di superiorità rispetto al resto del mondo. Vi erano le note di Svjaščennaja vojna (Guerra sacra), la canzone simbolo degli anni bellici, lo storico vessillo della vittoria e la bandiera della Federazione russa che hanno fatto il loro ingresso sulla piazza Rossa, portate da un drappello degli otto migliori elementi del 154° reggimento Preobraženskij, una tribuna d’onore allestita ai piedi del Mausoleo di Lenin, i magazzini Gum ricoperti da cartelloni e immagini, commenti sonori che rievocava gli anni della guerra, le decappottabili tradizionali che portano i militari d’alto grado.

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Tribuna d’onore davanti al mausoleo di Lenin

La scenografia è impressionante per potenza, coordinamento, simmetrie, coinvolgimento empatico. Putin prende parola e rievoca la grandiosità della vittoria, l’orgoglio di avere vinto laforza oscura”, il glorioso contributo dell’Armata rossa nella fine del conflitto. Questo è il vero punto, il vero significato di una parata che deve andare aldilà dei disagi del momento storico attuale, delle sanzioni e dei dissensi. Il presidente russo ricorda anche tutti i popoli che hanno contribuito a fianco del russo a raggiungere la “vetta più eroica della storia”, con saluti agli stranieri che hanno contribuito alla vittoria finale, francesi, inglesi e americani (assenti) e poi cinesi, indiani, serbi, mongoli. Invita a un minuto di silenzio, per onorare la memoria di coloro che non sono tornati.

 I drappelli schierati ricevono il saluto dei comandanti
I drappelli schierati ricevono il saluto dei comandanti

Le telecamere inquadrano la fiamma del fuoco eterno sulla tomba del milite ignoto. Inizia poi la parata vera e propria, sfilano truppe di terra, mezzi e strutture di guerra e aviazione, al suono dei tamburini della scuola di musica militare moscovita, gli stendardi dei fronti che hanno segnato le tappe finali della guerra. Si susseguono rappresentanze dei vari corpi e delle varie armi, i Cosacchi del Kuban, i paracadutisti dell’operazione Crimea, i militi di Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Tagikistan e poi dell’India, della Mongolia, della Serbia, della Cina. Tutti “amici oggi”. Ignorati gli altri (che, d’altra parte, non c’erano). La musica fa da padrona. Si riconoscono Podmoskovnye večera (“Mezzanotte a Mosca”), Katjuša (in Italia nota come “Fischia il vento”), dedicata al sostegno fornito dalle donne sovietiche durante il conflitto, Moskva majskaja (Mosca di maggio), Pesnja o trevožnoj molodosti (“Canzone della gioventù irrequieta”).

 I drappelli schierati ricevono il saluto dei comandanti
L’aviazione forma in cielo la cifra 70, tra le guglie del Cremlino.

Alle 11, le orchestre bandistiche lasciano la piazza per dare spazio alla sfilata dei mezzi e delle attrezzature militari. I carri armati sfilano in ordine cronologico, da quelli storici-sovietici ai più recenti prototipi modello “Armata”, mezzi che, si saprà dopo, danneggeranno il pavimento della Piazza, con milioni di rubli da spendere. L’aviazione da caccia forma in cielo la cifra 70, fra le aquile poste sulla sommità di due torri del Cremlino e, lasciando la scia con i colori della bandiera, chiude la manifestazione. Veterani, colori sgargianti, saluti, abbracci, commozione, lacrime, bandiere rosse, simboli sovietici, ricordi. La sera, immancabile, il “saljut”, lo spettacolo di fuochi d’artificio che evoca quello del 1945 e illumina a giorno la capitale. Quel maggio del 1945…

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La parata

Abbiamo voluto parlare di questa parata, fuori da ogni retorica e senza alcuna presa di posizione e schieramento attuale, per non dimenticare quel momento storico, per ricordare il ruolo della Russia in quel terribile conflitto. Un ruolo fondamentale e un onore al merito che non si possono negare. Un bellissimo articolo di Franco Venturini sul Corriere della Sera dell’8 maggio, intitolato “la politica dell’assenza che tradisce la storia”, ricordava proprio come la vittoria del 1945 fosse una vittoria comune sul nazifascismo e come essere alla parata di Mosca non significasse appoggiare la politica di Putin ma ricordare i 20 milioni di russi morti, senza i quali oggi l’Europa sarebbe (quasi sicuramente) diversa.

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Jurij Levitan

La parte orientale dell’Europa era stata liberata dai sovietici, ad Auschwitz le divise dell’Armata rossa erano quelle rimaste negli occhi di chi ne aveva visto spalancare i cancelli, il 27 gennaio 1945. Senza l’eroica resistenza di Stalingrado (dall’8 settembre 1941 al 18 gennaio 1944) e il lungo e vano assedio a Leningrado, dove il numero dei morti superò quello di inglesi e americani di tutta la guerra, la storia sarebbe stata un’altra. Quando l’annunciatore radiofonico Jurij Levitan aveva comunicato all’intero Paese la capitolazione nazista dell’8 maggio, firmata fra il maresciallo Georgij Zukov, il Feldmaresciallo Wilhelm Keitel e il maresciallo Arthur Tedder dell’aviazione britannica, la Mosca di Stalin esultava.

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Annuncio della resa tedesca

Un decreto del soviet supremo di quello stesso giorno, pubblicato sulle “Vedomosti Verchovnogo Soveta” (Gazzetta del soviet supremo) a firma di Stalin, istituì per il 9 maggio la festa della vittoria e stabilì che la giornata diventasse festiva. Allora come ora. Uno Stalin che non piaceva né a Churchill né a Roosevelt ma che era (ed era stato) assolutamente indispensabile per battere Hitler.

Ricordare i fatti, continua Venturini, non significa plaudere a Stalin, trascurare quanto d’inaccettabile fatto da lui e dai suoi sostenitori o, anche, sottovalutare alcuni contenuti nazionalistici della parata russa odierna. Ma il peso della Vittoria del 1945 dovrebbe prevalere. Non si può sfuggire dalla storia. Chiunque conosca la Russia, anche poco, sa che la strage della Grande guerra patriottica è ancora molto viva nelle memorie, nella psicologia collettiva. E che ciò non tollera offese. Il ricordo è vivo, lo dimostrano le molte esposizioni che ci sono ora nella capitale russa, come quella organizzata dal Museo di Mosca, che, aperta il 9 maggio, si protrarrà fino al 6 dicembre. I russi vanno e onorano.

La mostra inizia con il 22 giugno 1941, quando scatta l’Operazione Barbarossa e la Wehrmacht attacca dal Baltico al Mar Nero. In novembre-dicembre Hitler perde la battaglia di Mosca e la campagna di Russia (dell’Unione Sovietica, allora, per la precisione). E’ l’inizio di uno scontro di logoramento che la Germania perderà. Mentre i moscoviti si preparavano al Natale, trasportando, nella neve, i pini da addobbare, le barricate si mescolavano con le tavole preparate per il tè della sera, con il suono gracchiante del grammofono e quello più duro e forte della radio. Era freddo, come sempre in quel periodo, i battaglioni sfilavano per le strade della capitale. Si resisteva. Il gelo avrebbe aiutato anche questa volta, come aveva fatto con Napoleone.

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Le fotografie dell’epoca esposte ricordano famiglie e caduti, uomini e donne, la storia di un popolo che non dimentica i suoi eroi. Ci sono poi i sacchi delle trincee, fra i quali scorrono i filmati dell’epoca, i ricordi dei bombardamenti, scene tragiche di freddo e morte. Non mancani i manifesti dell’epoca e molte fotografie in bianco e nero.

In mezzo a tutto, svetta l’inquadratura sullo storico vessillo della vittoria (znamja pobedy), quello che aveva sventolato sul Reichstag di Berlino una bandiera, ricavata da una tovaglia rossa, stante l’impossibilità di trovare, nella città devastata, un autentico gonfalone sovietico. La memorabile fotografia fu scattata dal fotografo di guerra Evgenij Chaldej, dopo avere costruito la scena, a battaglia terminata.

Non si possono guardare quelle immagini e non ricordare una tragedia della storia che ha colpito la Russia così come gran parte dell’Europa. Italia in primis, che ne è uscita distrutta. Non si possono rinnegare quei morti per la libertà. Una tavola ricorda il valore del pane. Quel pane per cui si è combattuto. Il disprezzo occidentale verso quei 20 milioni di morti russi è, poi, quasi un regalo alla propaganda interna di Putin, conclude Venturini. Qualunque sia la riflessione finale che ciascuno voglia sposare e condividere, resta il fatto che il vero danno oggi, di quell’assenza occidentale, non è solo alla storia e al suo senso ma anche alla vera politica. Ci vogliono statisti capaci di affermare il senso della storia. Ma, all’orizzonte, non se ne vedono.

Fotografie di Simonetta Sandri, mostraCittà dei vincitori”, presso il Museo di Mosca, dal 9 maggio al 6 dicembre 2015.

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.

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