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Le stazioni sono posti assai particolari, e quella di Ferrara ne ha di storie da raccontare. Spesso in prima pagina a causa del degrado e di episodi che alimentano la cronaca nera, ha suscitato sempre la mia curiosità per la “doppia faccia” che cela, nemmeno troppo velatamente. Ed è per questo che ho deciso di passare lì una serata.
Arrivo in via del Lavoro intorno alle 22 e 45, il parcheggio è semi deserto. Sceso dall’auto, girandomi intorno, noto di essere l’unico da quelle parti. Mi avvio verso il sottopassaggio. Il lungo corridoio è deserto. Esco sul binario 3, lì prendo l’altro sottopassaggio che mi porta nell’ingresso. La situazione cambia. Al mio arrivo trovo seduti due ragazzi, avranno sui 20 anni, osservano il tabellone dei treni in partenza, altra gente è sull’uscio del grande portone di ingresso che raggiungo. Uscito fuori mi guardo intorno e mi rendo conto di una cosa: tolti i tassisti, sono tra i pochissimi italiani nella zona. La predominanza etnica è africana. Fingendo di aspettare un treno, mi siedo sulla destra del portone, noto subito che ci sono due ragazzi che mi osservano, sono abbastanza abituato, ma la cosa mi fa capire che la zona è strettamente “sorvegliata”. Dopo un po’ decido di fare una passeggiata. Con un po’ di titubanza mi avvio verso il famoso giardino dei grattacieli. Ne ho solo sentito parlare, non ci sono mai stato fisicamente se non di passaggio. Entro dopo aver superato un parcheggio di bici, in lontananza, sulle giostre, dei ragazzi ridono e scherzano nella loro lingua madre. C’è una panchina libera, decido di sedermici e far finta di stare al cellulare. Sono trascorsi all’incirca 5 minuti e vengo avvicinato da un ragazzo in bici dalla capigliatura tutt’altro che sobria. “Amico come stai?” è il suo esordio, gli rispondo che è tutto ok e gli chiedo lo stesso. Sorride e mi chiede “Vuoi fumo, erba?” Nella mia testa in quel momento ho pensato due cose: se dico di no, potrei sembrare sospetto, se dico di si commetto un reato. Corro il rischio e rifiuto gentilmente. Si allontana, non sembra essere del tutto soddisfatto. Noto il suo avvicinarsi ad un gruppetto di ragazzi, chiaramente sta parlando di me perché mi indica. Inizio a sentirmi osservato. Continuo a far finta di essere impegnato con il telefono e vengo raggiunto di nuovo dal ragazzo in maglietta con medaglione dorato al collo, ma questa volta accompagnato da un suo amico, sempre in bici e berretto da rapper.
La discussione è diversa, anche i toni meno amichevoli. “Come mai qui?” Mi chiede senza mezzi termini il nuovo arrivato. Gli spiego a fatica che sto aspettando un treno e sono uscito a fare un giro. Prosegue guardandomi in modo sospettoso e in inglese mi chiede “Where are your from?”. Io gli dico che vengo dal Sud e sono diretto a Venezia. Sembra calmarsi, mi dice che anche lui è stato al Sud, in Calabria. Inizia così una chiacchierata. Gli chiedo cosa fanno lì e mi dice, molto candidamente, che sta “lavorando”. Sorrido, conosco queste situazioni e farsi notare cosciente dei fatti è sempre meglio. Gli chiedo come mai tutta questa gente e mi risponde che passano lì la sera i suoi amici, alcuni lavorano, altri sono di compagnia. Azzardo una domanda scottante: “Ho sentito dire che questa zona sia pericolosa?” La reazione mi sorprende. Sorride e mi dice “Tu non in pericolo, qui tutti amici”. Sorrido anche io, mi chiede una sigaretta ma gli dico che non ne ho e mi dice se voglio comprare qualcosa, questa volta però l’offerta si allarga, passa anche alle donne. Gli spiego che tra poco sarei dovuto ripartire e mentre lo faccio dei suoi connazionali richiamano l’attenzione verso di loro con delle urla. C’è una specie di battibecco tra alcuni di loro, subito scattano con la bici. Mi guardo attorno e capisco che sono più di quanto credessi.
L’atmosfera sembra riscaldarsi, decido che forse è meglio lasciare quel posto e ritornarci quando sarà più tranquillo, ma mentre vado via si vedono i lampeggianti di una volante di pattuglia della polizia. Così si calmano gli animi, e tutti sembrano prendere altre strade, ma con gli occhi puntati sui movimenti dell’auto. Oramai però mi sono avviato. Raggiunta di nuovo la stazione mi accingo verso il corridoio, guardo l’orologio che ormai segna quasi l’una. Mi dirigo verso via del lavoro ma scendendo nel sottopassaggio del binario 3, un gruppetto di ragazzi ostruisce la strada, stanno preparando le siringhe per la droga, gli chiedo di farmi passare e con modi non molto carini mi dicono “Proprio qui devi venire a rompere?!”. Non rispondo e proseguo oltre, ma dall’accento capisco che sono ferraresi però. Esco finalmente dal tunnel. L’aria di via del Lavoro è del tutto diversa: non un’anima, non un grido, non una volante. Un silenzio che fa contrasto con quell’universo che mi sono lasciato alle spalle. Faccio per andare verso la macchina e vengo quasi spaventato da un uomo di colore che esce dalla boscaglia che dà sul cancello dei binari per i treni merci. Mi guarda con fare sospetto e sorride, ricambio il sorriso e proseguo dritto, lui mi segue con lo sguardo, capisco dal suo modo di fare che non era andato a fare dei bisogni come potevo credere inizialmente, ma a nascondere qualcosa, ma meglio non farsi vedere interessato mi dico. Una volta in auto tiro un sospiro di sollievo ma guardo ancora fisso la stazione: una parte di me vorrebbe tornarci, ma l’altra mi dice che, per ora, può bastare.

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Jonatas Di Sabato

Giornalista, Anarchico, Essere Umano

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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