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Ripensare nei giorni della memoria come deve essere necessario salvare il ricordo come bene prezioso e inestimabile che potrebbe spegnersi con la scomparsa dei testimoni mi sembra il compito etico che tutti dovrebbero proporsi per non dar luogo non al “bestiale” ma all’“inumano”. Ecco allora la funzione salvifica affidata alla scrittura e alle arti come il bene prezioso non solo di testimonianza ma soprattutto di memoria imperitura: “aere perennius”, come scriveva Orazio che il carissimo amico Claudio Cazzola mi suggerisce di interpretare così: “più duratura di ogni opera umana”, ovvero, come afferma Tucidide, “un possesso per sempre”.
Leggere sotto questa prospettiva l’articolo di Carl Macke “Il buon soldato. Una storia ferrarese” apparso su questo giornale rafforza e convince che sempre di più il ricordo deve essere “un possesso per sempre”.
Mi si riaffacciano alla memoria dunque i classici a cui il ricordo si affida: da Primo Levi ad Anna Frank, da Hanna Arendt a Elie Wiesel, da Hans Jonas a quello che sento più vicino, Jean Améry di Intellettuale a Auschwitz. E la cui funzione per me dovrebbe essere – e nel mio piccolo è – quella di chi difende la cultura come bene primario contro gli attacchi disumani del pensare comune, quello che produce i deliri razzistici testimoniati dalla Padania e dai suoi sostenitori (compreso il “patto d’acciaio” siglato dai leghisti con Marine Le Pen): l’accorato appello a non dimenticare si fa sempre più urgente e necessario.
Ricordare ad esempio un titolo che sembra affievolirsi nella memoria comune: La Storia di Elsa Morante con l’elegia tragica della povera Iduzza Ramundo vittima di uno stupro da parte del giovane soldato tedesco da cui nascerà Useppe, inconsapevole eroe di una storia di stragi. Useppe inventato dalla scrittura ma così reale grazie alla verità che ogni opera d’arte porta con sé. Fratello di Anna Frank, il cui ricordo si sarebbe perso nella strage della Storia se non fosse stato salvato da quel diario a cui viene affidato il ricordo “possesso per sempre”. Fratello di Piccolo a cui Primo Levi recita i versi “fatti non foste a viver come bruti” dell’Ulisse dantesco nel momento più angoscioso e terribile della distruzione dell’umano. Perché non prevalga la memoria grigia dei Sommersi e salvati, ché alla fine, se trionfasse quella, porterebbe a rinunciare al peso del ricordo, come purtroppo è accaduto col suicidio di Primo Levi o di Jean Améry.
L’arte e la scrittura rimeditati da un saggio terribile ma denso di significato come quello esposto nella meditazione filosofica di Hans Jonas che ripensa il valore della responsabilità umana in Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Ma soprattutto perché non si ripeta il rogo dei libri della perversa idea nazista che poteva illudersi che basta un fuoco per distruggere il pensiero. I libri vanno portati dentro. Sono la fodera dello spirito, senza di loro – cartacei o e-book – non potremmo pensare e ricordare. Ricordare che se questo è un uomo mai dovrebbe essere più scritta e quindi divenuta “possesso per sempre” la più terrificante testimonianza dell’inumano: “Considerate se questo è un uomo / Che lavora nel fango / Che non conosce pace / Che lotta per mezzo pane / Che muore per un sì o per un no. / Considerate se questa è una donna, / senza capelli e senza nome / senza più forza per ricordare / Vuoti gli occhi e freddo il grembo / Come una rana d’inverno”. MAI PIU’ che vi sia qualcuno che non ha “più forza di ricordare”.

Gianni Venturi è docente universitario a riposo di Letteratura italiana, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e dell’Istituto di ricerca su Canova e il Neoclassicismo di Bassano del Grappa, ma soprattutto (è la cosa a cui tiene di più) presidente dell’Associazione Amici dei Musei e Monumenti ferraresi. Nonostante queste attività è critico letterario specialista in Dante e nella letteratura contemporanea, Bassani in primis.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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