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Riprendendo alcuni spunti di riflessioni dall’ultima conferenza, tenuta la settimana scorsa in provincia di Ferrara, vorrei sottolineare cosa accade nelle famiglie in cui un componente si ammala di un disturbo alimentare.
Vi è inizialmente un effetto anestetico del sintomo sulla famiglia, nel senso che i genitori non vogliono vedere cosa sta accadendo al figlio o alla figlia, perché troppo angosciante.
I genitori sono vittime del sintomo e anche i destinatari; il sintomo veicola un messaggio che è da decodificare per i genitori.
Il sintomo costringe i genitori ad assumere comportamenti paradossali e controproducenti , come ad esempio chiudere la cucina a chiave o mettere lucchetti al frigorifero o alla dispensa. Tutta la famiglia ruota attorno al potere del sintomo, che si impone e detta legge. Tutti i tentativi di controllo sono destinati, tuttavia, a fallire. Più ci si concentra sul cibo, che rappresenta la punta dell’iceberg di un disagio molto più profondo, e più paradossalmente, involontariamente, lo si rinforza. Quando il disturbo alimentare diventa evidente, all’anestesia si sostituisce l’angoscia e compaiono sentimenti contrastanti: ansia, paura, rabbia, senso di impotenza e fallimento. Proprio perché il disturbo alimentare è un sintomo complesso è fondamentale che anche la famiglia compia un percorso di cura. A volte, in casi iniziali di disordini alimentari, è sufficiente che la famiglia faccia un percorso di cura e quindi si ridisponga in altro modo nella relazione perché il figlio o la figlia guariscano. I genitori all’inizio della terapia vengono per il soggetto che manifesta il disagio, lontani da una loro implicazione soggettiva, non capisco perché la figlia o il figlio si sono ammalati. Arrivano in terapia con una domanda di cura per il figlio o la figlia, chiedendo che tornino come prima. Poi incontrano la propria impotenza che si rispecchia nel corpo emaciato della figlia e nel rendersi conto del potere che il sintomo stesso ha sulla figlia. Il corpo emaciato rimanda a loro un “tu non sei stato…”. Si chiedono perché tale sciagura sia capitata proprio a loro. Poi durante il percorso terapeutico intuiscono che c’è una loro implicazione nel sintomo. Per far ciò occorre attraversare la propria impotenza, il proprio senso di colpa e di fallimento e imparare a non farsi angosciare da un sintomo così terrificante, che consuma il corpo del figlio fino a farlo scomparire e a metterlo, a volte, a rischio di vita. L’anoressia-bulimia punta a incrinare e lacerare il sentimento di amore materno e paterno e l’idea di essere stati dei buoni genitori. Occorre aiutare i genitori ad uscire dalla colpa o dalla banalizzazione educativa per ritrovare una propria indispensabile centralità, la loro soggettività e il loro dolore rispetto a ciò che accade. I genitori devono imparare a rinunciare all’idea di salvare la figlia a tutti i costi, solo così potranno realmente aiutarla. I genitori passano da una richiesta iniziale di aiutarli ad aiutare la figlia o il figlio, quindi dal sintomo del figlio, a una domanda di sapere su di sé,cioè una domanda di cura: dal “come si fa” al “perché mia figlia non mangia?”, quindi si aprono ad un’interrogazione soggettiva. Una madre riferisce in seduta parlando della figlia: ”Lei esibisce fiera quanto è dimagrita, sembra compiaciuta di come si è ridotta..a volte penso che lo faccia per ferirmi mostrandomi come si è ridotta per colpa mia. Ma oggi so che ridursi così è anche una scelta e ho iniziato a capire che la colpa che comunque sento dentro di me non è la stessa di prima che mi manipolava e ricattava. Oggi è più un mio dolore e mi sento più libera dagli artigli dell’anoressia”. Occorre imparare a prendere le distanze dal sintomo per impoverire il suo potere e far emergere il messaggio criptato che sintomo contiene. È indispensabile inoltre restituire ad ogni membro la specificità della sua posizione e la particolarità della sua parola.

Chiara Baratelli, psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali. baratellichiara@gmail.com

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Chiara Baratelli

È psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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