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Il 24 aprile è l’anniversario della strage di Rana Plaza, l’edificio-fabbrica di Savar, alla periferia di Dacca in Bangladesh, dove 1133 operai avevano perso la vita nel crollo di un agglomerato di laboratori tessili con oltre 3000 lavoratori, pagati meno di 30 euro al giorno. Per cucire vestiti, 12 ore al giorno, instancabili. Era il 2013 e, da allora, si erano raccolte firme per migliorare le condizioni di lavoro e di sicurezza in luoghi simili e lanciate campagne di raccolta firme come quella denominata “Abiti Puliti” [vedi], con cui si chiedeva ai marchi coinvolti di fare passi concreti e immediati necessari a cambiare le condizioni di lavoro e di sicurezza presso i loro fornitori in Bangladesh. Oltre un milione di persone avevano firmato le petizioni che chiedevano ai marchi che si riforniscono in Bangladesh di sottoscrivere il “Bangladesh fire and building safety agreement” immediatamente. I grandi marchi italiani, come Benetton, si erano dissociati, indicando che nessuno dei laboratori presenti nel palazzo crollato era loro fornitore. Incidenti analoghi erano diventati troppo frequenti. Il Bangladesh è la più grande fabbrica di vestiti occidentali, con le condizioni di lavoro peggiori.

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Logo della campagna internazionale Fashion revolution day 2015

Nel giorno di questa triste ricorrenza, dunque, il 24 aprile, “Chi ha fatto i miei vestiti?” è la domanda cui sono tutti invitati a rispondere, proposta dalla campagna internazionale Fashion revolution day 2015 [vedi], che invita a indossare gli abiti al contrario, con l’etichetta in vista, a fotografarsi e condividere le foto attraverso i social media con l’hashtag #whomademyclothes. Fashion Revolution è una coalizione globale di designers, scrittori, accademici, imprenditori e parlamentari che chiedono una riforma sistematica della catena della forniture nel campo della moda. Un’industria della moda che deve essere più etica e giusta, convinta che 1133 vite perse siano troppe in una sola fabbrica, in un sole terribile giorno. Va mostrato al mondo che il cambiamento è possibile, che quanto è successo non deve più succedere. Tutti devono conoscere, quando acquistano, processi e impatti dei propri abiti. E, soprattutto, da dove essi provengono. Alla campagna aderiscono 71 Paesi.

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Chi ha fatto i miei vestiti?

L’idea è quella di coinvolgere tutto il mondo della moda, dai coltivatori di cotone ai lavoratori delle fabbriche, dai grandi marchi ai negozi di abbigliamento, dai consumatori agli attivisti. Nata in Gran Bretagna, da un’idea di Carry Somers, pioniera del fair trade, la campagna 2015 è coordinata in Italia dalla stilista Marina Spadafora, ambasciatrice di una moda etica e sostenibile, e direttrice creativa di “Auteurs du Monde” con Virginia Pignotti, Laura Tagini e Carlotta Grimani e sostenuta da Altromercato e Botteghe del Mondo [vedi]. Se allora domani vedete gente con etichette a rovescio, non stupitevi… ora sapete perché.

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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