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Sono le sei di mattina del 5 maggio. Mi trascino fuor dal letto e spiego i vestiti della festa. Meno male che le abluzioni eran state fatte in stato di tranche a mezzanotte dopo il concerto dell’immenso Grigory Sokolov. Il gigante buono appare sul palcoscenico del Comunale con il suo viso triste, le spalle ingobbite, il frak strapazzato. Le luci debolissime a fatica illuminano i suoi capelli bianchi e si riflettono sul bordo del coperchio del pianoforte e la sala scandalosamente non esaurita ancora spiegazza carte di caramelle, stronfia nei fazzoletti, scatarra educatamente. Poi una piccola mano si alza e s’appoggia come una farfalla sui tasti. La prima nota del preludio della Partita di Bach impone un silenzio irreale e le Muse scendono lievi a consolare il cuore. Nella Sonata n. 7 di Beethoven quando s’inizia il Largo e mesto capisci che il paradiso non è solo gioia ma ripiegamento interiore che sommuove, direbbe Dante, il lago del cor. E tutti, anche gli scatarranti, si rendono conto che quel momento può e deve essere la felicità suprema. Non un gesto d’esultanza tradisce il mago: il viso rimane triste, le spalle s’insaccano ancor più, le gambe tozze s’avviano a fatica verso l’uscita e mentre scatta un urlo scomposto di gioia e di riconoscenza, reso ancor più sonoro dai battimani e dal ritmico pestar dei piedi, ti trovi a mormorare tra te e te: “Era già l’ora che volge il disio /ai navicanti e ‘ntenerisce il core/lo dì c’han detto ai dolci amici addio/e che lo novo peregrin d’amore/punge, s’e’ ode squilla di lontano/che paia il giorno pianger che si more.” Il resto è pura gioia. Schubert trascorre nel secondo tempo con quell’indicazione del primo movimento della Sonata op. 143 che recita Allegro giusto e si conclude con Allegro vivace e ancora ancora i sei Momenti musicali di cui tre sono Allegro e Allegretto. La sala invoca un bis e lui ne concede sei mentre le mani s’arrestano, ripigliano, volano, esitano e vibrano. Che felicità.
Poi, il giorno dopo, partenza per Milano. Ai giovani della Statale devo andare a raccontare del libro che mi danna e mi commuove da cinquant’anni: i “Dialoghi con Leucò” di Cesare Pavese e dir loro cosa significa rappresentare il destino come esperienza e esigenza etica. Il viaggio si compie nell’irreale silenzio di chi dorme o di chi accudisce al suo bisogno di touch e di selfie mentre mi danno a capire o a tentar di capire perché il divino non può essere tale se non si mescola con l’umano. Poi alzo l’occhio dal libro e mi si presenta una Turandot in bianco anziché in nero. Chi legge forse ha visto il copricapo della perfida regina nell’allestimento Expo della Scala: un intreccio di veli, lustrini e boccoli o meglio treccine che si muovono lentamente e a volte convulsamente quando chiede di torturare Liù. La ragazza ha treccine che altro non sono che i fili che le penzolano dalle orecchie: bianchi come l’acconciatura dove tra i lunghi capelli s’intravvede il luogo a cui sono indirizzati, proprio nelle piccole orecchie che ricevono suoni lontani a cui come in trance la bianca Turandot risponde sussurrando dentro un piccolo scatolino pur bianco emettendo soffi di voce e brevi risatine amorose. E ti guarda la giovine, ma non ti vede come non ti vedono i milioni di persone che fanno svolazzare l’indice per avere una conoscenza che altro non si rivela che buio. Buio della conoscenza, buio nella condizione esistenziale.
Sbarco in una Centrale presidiata da discrete forze dell’ordine. Il taxista mi guarda disperato allorché gli comunico dove devo andare. “E’ tutto bloccato”, sussurra, ma dignitosamente tenta vie traverse e mi conduce dopo mezz’ora di peregrinazioni davanti all’austera facciata della Università meneghina. Tento di spiegargli che preferirei che i giovani, che mi si dice siano accorsi numerosi a sentire dalla voce di un grande poeta cos’è il destino – e di che destino si parla -, andassero in corteo a manifestare contro la “buona scuola”, ma sono folgorato dalla risposta che proprio loro mi daranno. “Qui sta a lei dimostrare se abbiamo fatto bene a scegliere di ascoltarla invece di andare in corteo”.

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La copertina della prima edizione Einaudi del 1947

Capisco allora la responsabilità che hanno la mia generazione e quella successiva rispetto al destino di questi giovani e non posso che rispondere con quello che Pavese ha scritto. Il destino e la sua accettazione sta nel rendersi conto di ciò che l’uomo ha sperato e di ciò che ha patito. E tutto questo non può che attuarsi solo sfiorando quel manniano pozzo del passato la cui profondità è insondabile. Ma accostarvisi è il compito dell’umano e della sua ricerca etica.
Che almeno una briciola di questa ricerca tocchi la mente di chi fa politica. Lo vogliono questi giovani e con loro Croce, Gobetti, Einaudi, Salvemini, Gramsci e Matteotti, De Gasperi e Moro, Berlinguer e…
Alla fine i ragazzi eran soddisfatti e m’invitano a mangiar una pizza. Non sanno che io odio la pizza, ma questa volta l’ho mangiata di gusto e pure mi è piaciuta.

Copertine delle ultime edizioni Einaudi

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

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