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di Maria Paola Forlani

La religione dell’arte ha i suoi proseliti e i suoi luoghi di culto: i musei. Destinati a ospitare la bellezza, essi stessi divengono spesso belli ancor più delle opere che ospitano, non solo per l’insieme delle collezioni, ma per il connubio delle stesse con l’architettura, la luce, lo spazio, la decorazione e l’atmosfera dell’ambiente.

Bilbao
Il museo Guggenheim di Bilbao

Questa capacità dominante dell’architettura, o comunque del luogo, è stata particolarmente percepita nell’epoca contemporanea, dando luogo alla costruzione di edifici nei quali il progetto architettonico prevale sulle opere che contiene. L’esempio lampante tra molti è il Museo Guggenhem di Bilbao di Frank Gehry.
Tra i musei del passato però, la cui qualità architettonica peraltro è sempre rilevante, ve ne sono non pochi il cui fascino non proviene solo dall’architettura o solo dalle opere, bensì dal felice rapporto fra contenitore e contenuto. L’importanza delle modalità espositive è sempre stata sentita e lo è sempre di più. Sta anzi divenendo una disciplina a sé stante e nel visitare un’esposizione non si giudicano più soltanto le opere esposte, ma anche, talvolta soprattutto, il modo in cui sono esposte. Autore (o autori), regia (o sceneggiatura) e scenografia assumono quindi pesi quasi equivalenti, in un’esposizione o nell’allestimento di un museo come in uno spettacolo teatrale.
Luoghi di contemplazione, i musei risentono dell’aura mistica di luoghi in qualche modo sacri: cattedrali dell’arte, monasteri di bellezza. E nei casi frequenti in cui essi sono stati in origine abitazioni di collezionisti o di artisti riescono a documentarci anche una condizione di vita perduta, assumendo uno straordinario significato storico ed evocativo che sarebbe pressochè impossibile ricostruire. Il museo spesso, è stato detto, è l’orfanotrofio delle opere d’arte, nate per altre destinazioni e a queste sopravvissute, qui trovano protezione e visibilità. Malgrado questo traumatico cambiamento di vita, talora esse riescono a ristabilire con il nuovo ambiente un armonioso quanto miracoloso rapporto e a ricostruire l’aura del luogo di provenienza, palazzo, chiesa, casa, atelier e così via. Non a caso spesso erano e sono edifici storici a venire adibiti a musei.
Il convegno “La “rivoluzione del Museo” tra eclissi e rinascita della cultura?”, tenutosi all’edizione appena conclusa del Salone del Restauro nell’ambito del progetto internazionale “La città dei musei” (a cura di Letizia Caselli), ha posto il problema di come il museo dinamico possa essere proteso alla ricerca.
Il progetto “La città dei musei. Le città della ricerca” presentato nel 2015, si propone di affrontare in modo costruttivo e propositivo l’argomento della ricerca nei musei con alcuni puntuali riflessioni. La recente riforma Franceschini ha riorganizzato il sistema museale italiano dal punto di vista amministrativo e giuridico con la costituzione di venti musei autonomi e di una rete di diciassette Poli Regionali che dovrà favorire il dialogo continuo fra le diverse realtà museali pubbliche e private del territorio, ma ha affondato le radici in problemi complessi e di lunga data.
Una riforma che ha suscitato non poche reazioni e perplessità, quando non di aperta contrarietà, sia da parte di esperti della cultura italiana sia di alcune componenti degli stessi apparati ministeriali.
Le ‘antiche’ e diverse questioni riguardano innanzitutto il ruolo, la funzione e lo status effettivo dell’istituto museale, la sua autonomia scientifica e formativa, in un momento di debolezza e cambiamento del concetto tradizionale di cultura e delle categorie culturali e in un contesto di risorse drasticamente ridotte, personale scientifico insufficiente, terziarizzazione spinta, non solo dei servizi, ma anche della produzione culturale.

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Ѐ necessaria una nuova visione. Visione in cui istituzioni, università e musei dovranno innanzi tutto formarsi e formare per poter affrontare una realtà che richiede figure diversamente formate rispetto a quelle di oggi e nella quale vanno declinati e focalizzati modi specifici di ricerca, poi condivisi tra paesi diversi, in allineamento con le tendenze che si stanno affermando nelle principali città europee, anche in funzione di finanziamenti e progetti concreti.
Tuttavia il convegno “La “rivoluzione del Museo” tra eclissi e rinascita della cultura?” ha risentito, nel dibattito e nelle relazioni, proprio di tutte le ambiguità della nuova riforma e della pesante alleanza con il privato per il recupero di nuove risorse, auspicate dal Ministro come ‘unica salvezza’ del patrimonio artistico. In realtà le sedicenti verità sui privati, spesso privi di finalità umane e di vera crescita, si scontrano con il metro della Costituzione. L’articolo 9, e i suoi nessi con gli altri principi sui quali è stata fondata la Repubblica, ha spaccato in due la storia dell’arte, rivoluzionando il senso del patrimonio culturale. La Repubblica tutela il patrimonio per promuovere lo sviluppo della cultura attraverso la ricerca (art.9) e questo serve al pieno sviluppo della persona umana e per la realizzazione di un’uguaglianza sostanziale (art.3).
Oltre al significato universale del patrimonio, questo sistema di valori ne ha creato uno tipicamente nostro: il patrimonio appartiene a ogni cittadino – di oggi e di domani, nato o immigrato in Italia – a titolo di sovranità, una sovranità che proprio il patrimonio rende visibile ed esercitabile. Il patrimonio ci fa nazione non per via di sangue, ma per via di cultura e, per così dire, iure soli: cioè attraverso l’appartenenza reciproca tra cittadini e territorio antropizzato. Perché questo altissimo progetto si attui è necessario, però, che il patrimonio culturale rimanga un luogo terzo, cioè un luogo sottratto alle leggi del mercato. Il patrimonio culturale non può essere messo al servizio del denaro perché è un luogo dei diritti fondamentali della persona. E perché deve produrre cittadini: non clienti, spettatori o sudditi.

La conoscenza è l’unica medicina capace di curare, fermare, forse vincere questa epidemia di disumanizzazione. Nella nuova riforma Franceschini il dominio dei privati è destabilizzante, i nuovi direttori, come reali ‘dittatori’ senza nessun approccio reale con le sovrintendenze (ormai sparite), creano fantasmi nei collaboratori silenziosi, i più giovani sono privi di possibilità di entrare come veri protagonisti di una vera collaborazione o ‘ricerca’ retribuita, ma restano sudditi senza possibilità di uno spiraglio di un lavoro in prospettiva.
I privati hanno creato, spesso, vere dispersioni di capitali e oltraggi architettonici ormai incurabili. Mi riferisco alle violenze strutturali della dimora del conte Vittorio Cini, in via Santo Stefano a Ferrara, che ha perduto i suoi contorni medioevali per la bramosia di ‘ipotetici’ acquirenti della diocesi che hanno trasformato un luogo di cultura e d’arte in un ambiguo ‘condominio’, mentre le biblioteche e la collezione d’arte sono scomparse.

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

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Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

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