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Freedom’s just another word for nothing left to lose.
“Bobby McGee”, da Pearl (1971, postumo)

Lei qualcosa da perdere non ce l’aveva mai avuto, ma sarebbe stata la musica a perdersi qualcosa se non avesse conosciuto Janis.
Presentato fuori concorso alla 72esima edizione del Festival del Cinema di Venezia e nei cinema dall’8 ottobre, “Janis” di Amy Berg è il film documentario che, attraverso testimonianze audiovisive, lettere ad amici e familiari, fotografie, racconta la vita di Janis Joplin.
La pellicola della Berg riesce a privilegiare l’aspetto personale e intimo della donna e quello emotivo dell’artista, senza mai cadere in una falsariga retorica né nostalgica, né tanto meno censoria, del suo modo di essere totalmente inadatto, vero, autolesionista, tanto oggi quanto negli anni in cui è esplosa. Perché nascere in una tranquilla famiglia borghese degli anni Quaranta in una provincia battista del Sud e non riuscire a essere come tutti gli altri – partite di football e bella faccia anonima da poter esibire vicino ad altre mille uguali e insignificanti – voleva dire, e vuole dire tutt’oggi, essere fuori dal mondo, messa in un angolo. Ma mettere in un angolo una come lei è cosa ardua. Cacciata dal coro in cui canta, abbandonata la scuola all’ultimo anno di college, sempre al centro di risse, che scatena durante le scorribande con inseparabili amici rigorosamente uomini, preferenza di genere che manterrà un po’ ironica e un po’ seria negli anni a venire. Giocando a fare quella cattiva ragazza che in realtà non è. Solo così riesce a difendersi e a non lasciarsi ammazzare da una sensibilità emotiva completamente, stupidamente inadatta per chi come lei nasce con la dote di essere diverso, ma nello stesso tempo con il desiderio di essere accettata e apprezzata.
Lei il suo sogno americano lo vuole comunque. E se lo conquista con i rischi e le critiche del caso, abbandonando l’abito al ginocchio, la villetta a schiera e la famiglia seduta al tavolo rotondo in una sbiadita fotografia per diventare una ribelle beatnik che beve, fuma e canta con una voce che viene da chiedersi se davvero sia bianco il corpo dal quale esce.
Per lei, conquistarsi la copertina della rivista più in voga significa avere fatto qualcosa per cui meritare di sentirsi dire “brava”. Ma “brava”, al pari di “bella”, sente di esserlo solo quando lascia Port Arthur per San Francisco e trova i primi ingaggi, con quella voce sporca e sincera, scoperta per caso cantando un brano di Odetta, il suo primo grande amore insieme a Big Mama Thornton e Bessie Smith. Poi Aretha Franklin e Billie Holiday, quelle che dopo tre note ti hanno già fatto rapito. E ancora Otis Redding, che ascolta per caso una sera a un concerto, prendendogli a prestito il groove vocale della ripetizione.
Si presenta all’audizione con i Big Brother and the Holding Company e ne diventa la vocalist, trascinandoli in un successo dietro l’altro a partire dal debutto nel Festival di musica pop di Monterey, fino a intraprendere la carriera solista con gruppi di supporto tra cui la Kozmic Blue Band.
Folk, rock, country, bluegrass, il blues, per cui ha una empatia particolare, e il soul, forse il genere che le appartiene più di ogni altro. Li attraversa tutti, i generi musicali; se li fa tutti, nello stesso incondizionato modo in cui si abbandona all’altra grande compensatrice della sua anima: l’eroina, che la stona per l’ultima volta il 4 ottobre 1970. L’ultima fermata del treno che taglia la campagna assolata – immagine ricorrente nel film della Berg – correndo verso nuovi traguardi senza lasciarsi mai davvero alle spalle quella arrabbiata malinconia, graffiata di continuo dall’amore di cui è alla perenne ricerca e che non trova mai fino in fondo. Non importa essere ormai un simbolo indipendente, forte e deciso, quanto sensibile e devastato dalla solitudine in cui ripiomba ogni volta che lo spettacolo finisce, non importa avere lo stesso manager di Bob Dylan, né avere un contratto con la Columbia, né avere conquistato il disco d’oro dopo tre giorni dalla pubblicazione del nuovo album. La musica è semplicemente il mezzo, il “la”, attraverso cui si dà completamente, sofferente e delicata, scoprendo sul palco quello che c’è fuori e dentro di lei.JANIS JOPLIN “Quando canti entri in contatto con la tua immaginazione e la sua verità, cose che difficilmente proveresti passando da una festa all’altra, facendotela con chi ti pare.” È sempre e solo una questione di sentire, quando canti e quando vivi. Te lo dice quel “Ce n’è ancora” urlato dal palco di Woodstock a fine canzone, rivolto al pubblico e a se stessa, prima di ogni altro.
Perché se di te stesso dai solo una parte, allora, come essere umano e come artista, nella vita di graffi ne hai ricevuti troppo pochi.

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Giorgia Pizzirani


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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