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Etaoin etaoin etaoin: sono nato professionalmente, giornalisticamente, quando questa frase iterativa aveva un significato, oggi è soltanto un oscuro messaggio, cento milioni a chi sa dire che cosa significhi, per facilitare posso aggiungere la parola asfongobeis. Ora tutto chiaro, no? Sovente, negli articoli dei giornali di una volta (poche pagine, quasi niente pubblicità se non quelle di un callifugo che si trovava su tutti i fogli oppure della miracolosa pomata per rassodare i seni stanchi e afflosciati delle donne e farli ergere come a sedici anni), dicevo che spesso gli articoli dei quotidiani finivano misteriosamente con la frase incriminata. Per esempio: “…e con tre coltellate il marito malfidente ha ucciso, accusandola d’infedeltà, la moglie. Etaoin etaoin etaoin asfongobeis”. Pareva un saluto in greco antico. Invece, era semplicemente una riga di piombo, anzi due, che il linotipista faceva scendere sulla colonna ancora bollente, ma non più allo stato fuso, per pareggiarla e con la mano sinistra faceva una strisciata in verticale sui primi tasti delle sei file della consolle e usciva la riga con tre etaoin, poi, con la mano destra, compiva lo stesso gesto ma in orizzontale e sulla colonna rovente cadeva la riga di piombo con asfongobeis, ora sarebbe necessario spiegare che cos’era la linotype, com’era fatta, che funzioni aveva nella stampa a caldo, ma andremmo fuori tema, c’era la linotype e basta, e c’erano i linotipisti, coloro che trasferivano sul piombo i manoscritti (si scriveva molto a mano, soprattutto i collaboratori intellettuali) e i dattiloscritti: erano bravissimi i linotipisti, veloci, precisi. Etaoin etaoin etaoin asfongobeis. Pensieri vaganti in un momento in cui i ricordi vanno a quando molto lavoro umano era ancora manuale, il cellulare non era il telefonino ma semplicemente il furgone per il trasporto dei detenuti, i telefonini non esistevano e per chiamare il giornale da fuori città si chiedeva alla centralinista una “R”, una “rovesciata”, voleva dire avere la precedenza sulle interurbane normali e far pagare la chiamata al giornale. Era tutto più faticoso e più semplice. Adesso che tutto è semplice le cose sono maledettamente complicate.

Forse la vita comincia quando e dove finisce la ragione, era una massima di mia nonna Adele, nata Sgallari, ma potrebbe anche essere di Kierkegaard o, ancora più indietro, di Giordano Bruno in attesa del rogo purificatore che la Chiesa riserva a chi parla o pensa troppo. L’apostema (termine scelto con cura maniacale per la sua bruttezza) personalmente l’avrei affisso all’entrata delle grandi città dei morti, e pure dei piccoli cimiteri, creati, in nome di Dio, per la gloria dei vivi, meglio di quell’orribile motto che i nazisti mettevano sui cancelli dei loro lager, “Arbeit macht frei”, stupido, arrogante, feroce: il lavoro stanca l’uomo, mica lo rende libero, i padroni hanno sempre fatto lavorare i loro servi, ritagliando per se stessi ampi spazi di libera inettitudine, mascherata sotto l’ipocrita formula “il signore sta studiando”, mai visto un signore (o una signora) zappare la terra, al massimo sono stati notati, i signori, mentre curano le camelie, operazione che, come si sa, comporta molta fatica. Camelie oppure orchidee. Se i padroni avessero amato lavorare, certamente a curare le camelie avrebbero mandato i loro operai, ai quali viene raccomandato di non pensare, pensare, infatti, è pericoloso e il padrone ha il dovere di salvaguardare la salute psicofisica dei dipendenti. E avrebbero riservato a se stessi, i padroni, l‘ambita fatica negli altiforni. E’ una delle ragioni principali dell’atteggiamento paternalistico e protettivo degli editori nei confronti dei loro giornalisti, che sono gli zappatori del pensiero, i manovali dell’intellettualità, guai se un giornalista comincia a pensare, il suo capo servizio subito lo guarda con sospetto, il sospetto poi viene comunicato al direttore, da questi all’editore e, alla prima occasione propizia, il cogitante viene allontanato con le buone o con le cattive maniere, messo da parte, confinato nel limbo degli impuri rivoltosi nemici della società: c’era un mio collega per il quale era stato ritagliato un solo compito, trascrivere, mandandoli poi in tipografia, gli annunci del mercatino dell’usato dei lettori, centinaia ogni giorno e lui scriveva, scriveva, di tanto in tanto qualcuno gli passava dietro, gli batteva con la mano su una spalla e gli diceva “beato te, Paolo, che fai il giornalista e viaggi”.

Parlare dei giornalisti e del giornalismo oggi significa tentare di spiegare le ragioni di una società stupida, violenta, ignorante, in cui i giornalisti sono gli strumenti del potere per imporre alla gente il proprio interesse. Il potere è un’enorme, furba, indifferente bestia pelosa. E il popolo moderno non viene educato secondo regole del buon comportamento, siccome voleva un antico codice borghese, anche questo ormai dimenticato – la formula era: come un buon padre di famiglia – ma dai programmi televisivi pensati per le casalinghe meno attrezzate culturalmente e dalle centinaia di settimanali-bagascia nei quali gli argomenti più impegnati riguardano le tette siliconate di ragazze decerebralizzate e i muscoli taroccati di qualche maschio enfiato con gli anabolizzanti, come le galline e i vitelli da macello, la cui carne si sgonfia e si affloscia appena sente il brucior del fuoco. Il buon giornalista è quasi sempre colui il quale vende meglio la propria carne e il proprio cervello e il grande giornalista è un intellettuale che conosce meglio degli altri l’inesauribile gioco del mercato delle idee, non si deve prestar fede a chi presenta figure romantiche di scrittori che hanno saputo opporsi con il proprio petto agli insulti della violenza del potere, gettare la stampella contro il nemico, chi veramente lo ha fatto è stato impallinato, umiliato, avvilito, confinato e insultato: un grande giornalista, Guido Nozzoli, forse il migliore tra gli italiani inviati durante la guerra in Vietnam, venne richiamato in patria, scriveva cose sconce, cioè la verità su quella nefanda avventura del capitalismo non soltanto americano, ecco, Nozzoli diceva di avere un unico censore, il suo barbiere di Rimini, nella cui bottega tornavano di tanto in tanto anche Federico Fellini e Sergio Zavoli, amici antichi, sì che il negozio era diventato luogo di ritrovo, di discussione, di dibattito ed era sempre il parrucchiere a dirigere, a giudicare, a condurre come un Santoro da bottega e, a volte, a ironizzare sui tre suoi amici famosi: quando ero in Vietnam – raccontava Guido – e descrivevo un’operazione bellica e mi accorgevo di aver usato una parola desueta, immaginavo di vedere il mio barbiere uscire dalla sua boutique e urlare il mio nome facendo seguire il grido da una sonora pernacchia. A quel punto Nozzoli cancellava il termine sostituendolo con uno più popolare, “che Dio benedica il mio barbiere”, concludeva. L’eretico anticapitalista Nozzoli fu punito, il suo raggio d’azione non poteva andare oltre le mura della pur grande Milano, “sono un inviato in tram”, diceva sorridendo amaro. Un giorno venne a salutarmi, eravamo in redazione al giornale, torno a Rimini, disse, vado in pensione a fare l’ebanista, mi piace fare l’ebanista, un giorno vieni a vedere come ho sistemato un cassettone antico a casa mia. Il giornalismo del potere lo aveva mandato in pensione anzitempo, ma non credo che abbia poi fatto l’ebanista. Di lui rimane nella mia biblioteca il bellissimo libro “I ras del fascismo”. Rividi qualche anno dopo, seduto a un bar davanti all’Embassy, glorioso baladùr riminese, stravaccato su una poltroncina di vimini, sembrava uscito dal film “I vitelloni” del suo amico Fellini, pantaloncini bianchi corti, maglietta, ciabatte da spiaggia: “cosa fai qui?”, mi chiese, mi hanno tolto i servizi politici, mi hanno tolto le inchieste sul terrorismo, risposi, ora seguo le vacanze degli italiani, i nostri sguardi s’incontrarono. Comprese. Non c’era bisogno di altri commenti.

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Gian Pietro Testa

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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