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Penso abbia ragione Piero Stefani (Carlino e Nuova Ferrara 28 novembre) a esprimere la propria solidarietà all’arcivescovo di Ferrara-Comacchio, Luigi Negri, dopo le affermazioni a lui attribuite e pubblicate da “Il Fatto quotidiano” (mercoledì 25 novembre).
Frasi ascoltate su un treno, riportate e pubblicate a insaputa di chi le avrebbe dette, è il modo di fare informazione?
Se la risposta è sì, da pubblicista dico che non mi convince per niente.
Emblematico è il virale flusso di coscienza scatenato, per esempio, dalle parole riportate che fanno riferimento all’invocazione dell’aiuto niente meno che della Madonna. Per molti è stata evidente, e perciò scandalosa, l’associazione con la fine di papa Luciani. C’è chi ha addirittura pensato a Pio IX. Non stupirebbe se qualcuno, nell’onda inarrestabile della rete, si spingesse a rivolgere uno sguardo obliquo persino alla suocera.
Non penso che questo sia il modo giusto per porre dei temi, sui quali lanciare appelli e su cui si innestano dibattiti.
Su che cosa?
Certamente le parole successive di monsignor Negri, almeno finora, non paiono una smentita formale, come è significativo pure il comunicato diramato da Comunione e Liberazione (il giorno dopo), da sempre riferimento dell’arcivescovo, con una presa di distanze che ha quasi del clamoroso (“dal 2005 Negri non ha più incarichi in Cl”, che per inciso è l’anno della sua ordinazione vescovile).

Al di là del tratto temperamentale del vescovo chiamato a reggere l’arcidiocesi di Ferrara-Comacchio dal 3 marzo 2013, che pure ha un suo diritto di cittadinanza nell’insieme, è condivisibile il “senso di forte rammarico” che Stefani esprime “per l’impossibilità di attuare un pubblico e costruttivo dibattito sia civile che interecclesiale sulle linee di fondo che guidano l’azione pastorale di monsignor Negri, che oggettivamente stanno procurando forti disagi sia nell’ambito della società civile sia all’interno di ampi strati della comunità ecclesiale”.
Credo sia qui il punto di fondo della questione e da qui dovrebbe partire una riflessione, oltre quindi le pur legittime e comprensibili prese di posizione, più o meno indignate.
Sarebbe davvero interessante mettere a tema – anche in ambito civile, puntualizza lucidamente Stefani – quelle linee di fondo, a costo di far emergere differenze, sensibilità e diversità, che nella dignità e legittimità dei rispettivi riferimenti culturali e teologici, potrebbero rivelarsi elemento di ricchezza e non tanto motivo di scontro, che non serve a nessuno.
Ad esempio, più volte monsignor Negri si riferisce al mondo come in preda a un processo di scristianizzazione, a una progressiva distanza dal messaggio evangelico, da Dio e dalla Chiesa. Un mondo sempre più lontano e senza Dio, che giustificherebbe in tal senso un magistero carico di moniti e accenti pessimisti.

E’ noto (forse non ai più), che esiste nel pensiero teologico, all’interno di una ricca e intensissima riflessione che si sviluppa grosso modo fra gli anni ’30 e ’60 del ‘900 (come ricorda Germano Pattaro nel suo libro postumo “La svolta antropologica”), una lettura del mondo che pur essendo e restando altro da Dio, riflette come il passaggio dal mondo a Dio avvenga esattamente (sic!) nel passaggio di Dio al mondo in Cristo. In altri termini, proprio in questa dinamica dell’incarnazione di Dio in Cristo avviene una sorta di duplice movimento: del divino nell’umano, ma anche un’assunzione dell’umano nel divino. Una sorta di compimento cristologico del racconto biblico della creazione dell’uomo: a immagine e somiglianza.
Se questo teologicamente ha un senso, significa che per la chiesa avviene il superamento definitivo della presunzione – a lungo sostenuta – per cui essa è il luogo della presenza di Dio, mentre il mondo è il luogo dove Dio non è.

Non è difficile immaginare che le declinazioni di tale pensiero implicano, in fondo, l’esigenza di una diversa postura della chiesa nel mondo. Ecco perché da un magistero papale di costante condanna del mondo e della storia (congiura dei malvagi diceva papa Gregorio XVI nell’enciclica Mirari Vos), si apre con Giovanni XXIII la stagione della collaborazione e successivamente, con Paolo VI, la chiesa si fa dialogo con il mondo.
E’ qui il tornante storico e teologico del Concilio Vaticano II, che tuttora rappresenta una sorta di bivio per la chiesa. O si prosegue (oppure si torna) sulla strada di un necessario insegnamento di una chiesa Magistra di fronte a un mondo sotto scacco del peccato (e gli esempi del negativo non mancano, fino ai toni più preoccupati e apocalittici del tempo presente), oppure si percorre una strada che richiede evidentemente il coraggio di non guardare indietro con nostalgia e che presenta tutti i rischi del dialogo, con la conseguente rinuncia ai privilegi rassicuranti di un passato che per secoli ha dato corpo alla cattedra, al pulpito sacro (separato) e alto (perciò autorevole e ascoltato) della chiesa.

Inutile ricordare che questi sono i temi e le sfide che si ripresentano di fronte al pontificato di Bergoglio (anche se si sorvola con troppa leggerezza sul significato delle dimissioni di Benedetto XVI); gli stessi che hanno puntualmente occupato la ribalta durante il sinodo dei vescovi sulla famiglia, conclusosi l’ottobre scorso.
Il rammarico, allora, è che non si possa aprire una riflessione profonda su queste cose, ben oltre quindi le prese di posizione del momento su una persona. Una riflessione che non deve fare vincitori e vinti ma che, come avverte giustamente Stefani, avrebbe effetti sicuramente arricchenti – sotto tanti aspetti – per la comunità ecclesiale e anche per quella civile più generale.

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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