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In un’intervista di qualche mese fa Bill Gates, il fondatore della Microsoft nonché uomo più ricco del mondo, ragionava sul fatto che l’automazione sta portando via posti di lavoro. Questo crea un problema e la soluzione poteva essere tassare i robot e investire i soldi ricavati in formazione per i nuovi disoccupati.
Gates ammette che un’operazione di questo tipo potrebbe però rallentare la crescita delle aziende stesse, se il costo di queste tasse fosse a loro addebitato, in quanto smetterebbero di adottare robot nel ciclo produttivo. Ma proprio questo rallentamento sarebbe auspicabile, visto che ancora non siamo pronti a gestire un mondo così automatizzato.
La proposta della robot tax, in realtà, era già stata rifiutata dal parlamento europeo proprio per il suo effetto negativo sulla competitività: se aumenta il costo dell’utilizzo del robot le aziende non investono in automazione.
Meglio sarebbe, sostiene qualcuno, pensare a un reddito di cittadinanza per sostenere chi in futuro sempre più spesso perderà il lavoro a favore dei robot.

I punti, dunque, sono il lavoro e i soldi. Trovare un altro lavoro a chi lo perde e assicurare in qualche modo un reddito a chi è in cerca per potersi comprare il pane e pagare le tasse. Ma se i robot esistono e si pensa possano sostituire l’uomo, prima o poi lo sostituiranno in tutto, magari lasciando solo piccole aree alla creatività umana. Sarebbe quindi inutile perdere tempo a formare lavoratori visto che tutto prima o poi potrà essere fatto da automi A questo punto, le soluzioni sembrerebbero essere sostanzialmente due: il restringimento della popolazione umana ai padroni dei ‘mezzi di produzione’, accompagnati solo da quegli indispensabili creativi necessari alla loro perpetrazione, oppure la rinuncia al progresso.
Nel primo caso, il lavoro sarà funzionale agli interessi di sopravvivenza di quella cerchia di superuomini che si saranno accaparrati la conoscenza e il denaro non avrà più senso in quanto i beni e i servizi saranno già di proprietà di quei pochi e quindi non ulteriormente scambiabili e nemmeno utilizzabili come riserva di valore visto che il valore sarà già stato realizzato.
Nel secondo caso, continueremo a scendere in miniera.

Ma proviamo a ripartire di nuovo con riflessione e scenari diversi e proprio da oggi.
Il problema esiste, i robot stanno svuotando le fabbriche e sempre più sostituiranno le professioni, il futuro appartiene all’intelligenza artificiale. Il problema esiste, ma per fortuna non è un problema ma una risorsa, un regalo, una porta su un nuovo futuro che ci potrebbe rendere tutti più felici, più sani, più longevi. L’intelligenza artificiale potrebbe essere la nostra astronave per la galassia del futuro, quella che finalmente ci farà uscire dalle miniere, dalla ripetitività delle nostre azioni quotidiane, dall’andare in ufficio quando potremmo fare le stesse cose, già oggi, schiacciando dei tasti da casa.
Siamo già collegati a reti locali, a reti geografiche, wireless, domotica. Controlliamo dalla nostra sdraio al mare l’allarme di casa e l’impianto di condizionamento, ma anche da comode poltrone l’atterraggio di un robot su qualche luna di Giove. Però pensiamo sia normale nel 2017 correre di buon mattino per passare otto ore su una catena di montaggio e abbiamo paura che prima o poi un androide impasti la malta al posto nostro. Abbiamo paura perché il ragionamento che propone Bill Gates davanti alla porta del futuro è: “chi ci pagherà lo stipendio?” oppure “chi ci darà i soldi per fare la spesa?”. Un discorso talmente vecchio da mettere i brividi, come se davanti alla possibilità di respirare aria pulita per il resto dell’eternità mi preoccupassi che le centraline che controllano lo smog potrebbero rimanere inutilizzate.

Il problema nel futuro futuribile, come nel presente invivibile, è la produzione e la conseguente distribuzione delle necessità della vita. La soddisfazione dei bisogni umani e l’impiego delle risorse non sfruttate dovrebbero essere il faro, sempre! Spiegato ai neofiti vuol dire che oggi abbiamo milioni di persone che vorrebbero lavorare, ma per ragioni di controllo delle risorse e del loro accaparramento da parte di una piccola parte della popolazione, vengono lasciate a casa. Di conseguenza queste risorse non utilizzate generano l’insoddisfazione dei bisogni (non mi fanno lavorare, non guadagno, non compro, non si produce, non si vende e via da capo), il tutto in un contesto che reclama lavoro (cioè utilizzo di queste risorse): argini dei fiumi da sistemare, strade da pulire, servizi da incrementare, case da mettere in sicurezza sismica, ospedali da ridotare di medici e infermieri, anziani da accudire, etc..

In futuro, tanti robottini spaleranno le strade, lavoreranno in campagna per approvvigionare le città, cureranno le catene di montaggio, costruiranno le case, ripareranno le strade, taglieranno l’erba. Ci libereremo cioè dalla schiavitù di doverci procurare da mangiare attraverso il lavoro, facendoci fare un salto paragonabile alla scoperta dei benefici dell’agricoltura che permise di passare dal primitivo errante al moderno stanziale. In un contesto del genere, il nostro problema dovrebbe essere la moneta?
Il vero problema sarà di fare in modo che non lo sia. Di riappropriarci della fantasia di immaginare un futuro migliore e della realtà di pensare che tutte quelle risorse che i robot creeranno non dovranno essere appannaggio di pochi uomini, cioè esattamente quello che sta succedendo oggi, ma un bene dell’umanità intera e che le risorse dovranno essere ben distribuite in quanto frutto dell’ingegno umano. Evitare gli oligopoli della conoscenza, della produzione, delle risorse e dei bisogni e fare in modo che il benessere sia patrimonio dell’umanità.

Insomma futuro futuribile o presente invivibile è sempre la stessa storia: il problema non è il denaro, ma i pomodori e il pane. Affrontare il futuro come stiamo affrontando il presente complica dannatamente le cose, inverte i paradigmi e tutto sembra incredibilmente difficile e che solo pagine e pagine di formule possano darci la soluzione. Ma il presente è necessariamente già passato, manca solo la nostra comprensione, la fantasia di ritornare alla realtà reale in cui, come diceva Ezra Pound, “il denaro non ti copre, non lo puoi mangiare e non ti riscalda”.

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Claudio Pisapia

Dipendente del Ministero Difesa e appassionato di macroeconomia e geopolitica, ha scritto due libri: “Pensieri Sparsi. L’economia dell’essere umano” e “L’altra faccia della moneta. Il debito che non fa paura”. Storico collaboratore del Gruppo Economia di Ferrara (www.gecofe.it) con il quale ha contribuito ad organizzare numerosi incontri con i cittadini sotto forma di conversazioni civili, spettacoli e mostre, si impegna nello studio e nella divulgazione di un’informazione libera dai vincoli del pregiudizio. Cura il blog personale www.claudiopisapia.info

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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