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Ho qui davanti a me due madri coraggio di brechtiana memoria. Patrizia Moretti Aldrovandi è ben conosciuta in questa città abbastanza codarda, nella quale ha sparigliato le carte, sociali ma pure politiche, di una collettività omertosa, dai silenzi complici e acquiescenti con il potere, qualsiasi potere, purché sia potere: non è esagerazione letteraria, qui la famiglia insegna la cultura della birra condita con un poco di pusillanimità, tanto per fare le ossa dei pargoli e instradarli su una luminosa servile carriera. Patrizia ha difeso con i denti la memoria del suo ragazzo, Federico, poco più di un bambino, massacrato da quattro omicidi in divisa quasi sotto casa. Vera Vigevani Jarach, italo-argentina di 86 anni, sveglia come una ragazzina, è la madre di una studentessa di 19 anni desaparecida: far sparire la gente che non era d’accordo con la politica (e la società) del potere era il marchio di fabbrica dei golpisti argentini. Come si chiamava sua figlia? Vera Vigevani mi guarda quasi con aria d sfida: “come si chiama, non come si chiamava, si chiama Franca”.

Le due madri siedono una di fronte all’altra nella hall di un albergo cittadino, non hanno bisogno di spiegarsi, il loro è un dolore comune a tutte, o quasi tutte, le donne, a cui sia stato rubato un figlio, è un dolore che non si elabora (orribile termine ora di moda), non si elabora nulla, il dolore rimane dolore, sofferenza pesante, inconsolabile, i preti dicono tuo figlio è in cielo, intanto non c’è più quella carne della tua carne, quell’anima della tua anima, quella voce della tua voce che continua a chiamarti di notte, nel sonno, di giorno, quando mangi, perfino quando fai l’amore.

“Ho saputo della tua storia stamane – dice Vera rivolta a Patrizia – qui è stata la polizia, in Argentina è stato l’esercito. Fu pochi mesi dopo il golpe del 24 marzo del 1976. Franca è uscita di casa e non è più tornata. Certo, lei era contro il regime golpista, allora tutto il mondo era scosso da fremiti libertari. E’ cominciata così questa storia, che non è mai finita.”
“Ma è la storia – la interrompe Patrizia Moretti – che è stata d’esempio per noi, anzi per tutto il mondo”
“La giunta militare – riprende Vera Vigevani – combatteva le idee nate in una società in effervescenza. Ha tentato in ogni modo di fermarci, ma noi abbiamo chiesto aiuto a tutti, poi, dopo un anno, abbiamo deciso di scendere in piazza e siamo diventati un movimento di resistenza”.
“Si – dice Patrizia – l’esempio vostro mi ha sostenuto, anch’io, all’inizio, credevo che fosse inutile chiedere giustizia e non è vero che la gente non ci ascolta, abbiamo tante madri e sorelle che sono diventate la nostra forza”.

Ma la città, o, meglio, la società borghese di questa città non ha mosso un dito, anzi – dico rivolto a Patrizia – un silenzio vergognoso…
“Si – riprende la mamma di Federico – ma le donne che mi stanno vicino, quelle che hanno avuto un figlio nella pancia, sanno quanto vale una vita e il silenzio degli altri è la negazione della vita. Mi sono accorta, comunque, che c’è tanta brava gente, anche dentro le istituzioni”.
“ Noi – racconta Vera Vigevani – abbiamo formato un comitato e abbiamo cominciato a raccogliere le denunce per controbattere un potere che diceva basta processi, faceva leggi per ridurre la società al silenzio e diceva non ci sono colpevoli, tant’è che liberavano anche i militari che erano stati accusati. Ora, da due anni, sono in corso molti processi, ma noi non ci arrendiamo, abbiamo pazienza, dicono di perdonare: no, non perdoniamo”.

“Nemmeno io posso perdonare – sussurra Patrizia – non potete immaginare che cosa provi io quando esco per strada e vedo due dei quattro assassini liberi, li incontro e li vedo liberi, come se nulla fosse accaduto” . Poi si rivolge a me: chiedevi del silenzio mafioso della borghesia? Ci ha ferito molto e, purtroppo, la parrocchia è stato il luogo dove l’omertà è cresciuta”.
“Devo dire – afferma Vera – che in Argentina l’omertà è stata vinta…”
“Si, è vero – prosegue Patrizia – anche qui nelle istituzioni, come dicevo, c’è gente con una coscienza, ma io rimango abbastanza pessimista“.

Vera Vigevani ha una lunga storia di persecuzioni alle spalle, nel 1939, quando vennero approvate le leggi razziali, la sua famiglia – erano ebrei – dovette lasciare Milano e fuggire in Argentina, ma il nonno, Ettore Camerino, fu preso e deportato ad Auschwitz, dove morì: Vera aveva allora 11 anni. “Cosa vuoi – dice rivolte a Patrizia – è la storia del potere prevaricatore. Il genocidio è un’antica prassi, benedetta da uno strano dio, “el Dio de la casa”, lo chiamavano i conquistadores”
Eccolo qua il dio della violenza: “C’è una volontà nella società di fare il male – dice Patrizia – e per troppa gente questa volontà è la forza di chi sostiene la guerra contro la ragione e la solidarietà. Sì – afferma con forza Patrizia – questa guerra corrompe la pace…”.

Saluto queste due madri-coraggio, mi sembra che la voce loro sia quella di quei due figli che hanno portato nel ventre per poi uscire al mondo e diventare carne per i carnefici.

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Gian Pietro Testa

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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