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di Alberto Melandri

Nel libro  “L’economia è una menzogna” l’economista e filosofo francese Serge Latouche, considerato uno dei padri della teoria della DECRESCITA, viene intervistato da tre studiosi, l’economista Didier Harpagès, il filosofo dell’urbano Thierry Paquot, e Daniele Pepino del Gruppo Abele. Il titolo dell’edizione italiana è diverso da quello originario francese, molto distaccato (“ Itineranza. Dal terzomondismo alla Decrescita”) e legato al percorso intellettuale ed esistenziale dell’autore. Il titolo scelto dalla B&B è, invece molto più provocatorio e forse va anche un po’oltre le intenzioni di Latouche che nel testo parla di ‘invenzione dell’economia’ più che di menzogna: ”L’economia non ha niente di naturale, ma (::)è stata inventata.

Gli animali non hanno economia, e neppure gli uomini, almeno fino al neolitico.” L’intento dell’autore è quello di contribuire alla decolonizzazione del nostro immaginario e del nostro linguaggio, per “demercificare quantomeno una parte della realtà” liberandoci dalla condanna a cui il sistema ci ha costretti ad abituarci, quella di considerare l’inevitabilità di rapporti ‘mercificati’ fra esseri umani. Certo, afferma Latouche, “Se un certo livello di sicurezza economica è essenziale, la felicità dipende molto di più dalla qualità delle relazioni sociali che si hanno” Quindi viene citato il cosiddetto ‘paradosso di Easterlin’ così denominato dall’economista statunitense che ha dimostrato “come il livello di felicità delle persone non cresca in funzione del PIL”- Latouche racconta come le sue prime esperienze di studio fuori dalla Francia gli hanno fatto incontrare nel Laos “società che stavano al di fuori dallo sviluppo” ma i cui abitanti (..) erano incredibilmente felici, o meglio relativamente felici (..) erano festose e lavoravano molto poco” , e nel Senegal forme di ‘società informale’ in cui gli esclusi” reinventano legami sociali” “stando fuori dall’economia” “con il riciclaggio e il recupero degli scarti”.

A queste esperienze si sono aggiunti poi gli stimoli provenienti da Ivan Illich, da Cornelius Castoriadis,e da Nicholas Georgescu- Roegen,(“Una crescita infinita è incompatibile con un pianeta finito”), ma anche da tutte le forme di saggezza antiche “basate sulla capacità di autolimitarsi” come stoicismo ed epicureismo, buddismo o come le sapienze africana e amerindiana. Così si è delineato meglio col tempo il progetto della società della decrescita, che si presenta come “un orizzonte di senso, un progetto che non sarà mai interamente realizzato”, un “progetto sociale, o meglio di società” dice Latouche : “Si tratta di trasformare la società, non di prendere il potere”, “L’idea è piuttosto di creare un forte movimento di contropotere che non cerca di prendere il potere, ma vuole imporre al potere, quale che sia (..), di andare nella direzione del rispetto degli ecosistemi, (..) della volontà popolare, della democrazia, di una vera democrazia di base”.

Analogamente già il 1 gennaio 1994 aveva dichiarato nel Chiapas messicano il subcomandante Marcos, leader del movimento neozapatista :” Noi non vogliamo prendere il potere, perché sappiamo per esperienza che, se prendessimo il potere, saremmo catturati dal potere.” La Decrescita si contrappone decisamente sia al progetto dell’austerità , sostenuta dalla destra europea, sia alla scommessa della crescita, fatto proprio dalle sinistre. Dice Latouche : “Oggi la crescita non è più possibile, e neppure desiderabile. Il nostro pianeta non può sopportare altra crescita. Abbiamo inquinato tutto: l’aria, l’acqua, il suolo. Inoltre la crescita (..) non crea neppure occupazione” I capisaldi della decrescita sono la rilocalizzazione, la ristrutturazione e la riconversione ecologica e la riduzione dell’orario di lavoro (‘lavorare meno per lavorare tutti’) .

Gli ‘obiettori di crescita’ non si oppongono a ogni tipo di crescita: vogliono la crescita della qualità dell’acqua, del cibo, dell’aria e delle relazioni umane, perché, come afferma un proverbio wolof “E’ povero chi non ha nessuno”. Ci sono nel mondo moltissime esperienze che dimostrano come si possano realizzare già qui e ora dei pezzi di società della decrescita, come le transition towns, diffuse dal movimento della transizione di Rob Hopkins; inoltre sia in Cina che in Giappone, soprattutto dopo Fukushima, si stanno studiando soluzioni che si ispirano ai principi della decrescita. Latouche è quindi , anche se cautamente, ottimista e verso la fine della seconda intervista cita uno dei temi su cui insiste di più: l’opposizione alla obsolescenza programmata dei beni di consumo tecnologici, ricordando un esempio da non dimenticare: il giorno di Natale del 1924, i rappresentanti dei maggiori produttori mondiali di lampadine decisero, incontrandosi a Ginevra, che la vita di una lampadina non poteva superare le mille ore di luce, introducendo nei loro prodotti un difetto che prima non esisteva, dato che praticamente le lampadine erano pressochè eterne; a testimoniare questo fatto Latouche ricorda che nella caserma dei pompieri di Livermore, in California, fa ancora luce a tutt’oggi una lampadina del 1912, fabbricata prima delle modifiche peggiorative del 1924. Livermore potrebbe diventare un simbolo internazionale della società della decrescita.

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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