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di Michele Montanari

Da ieri sera a Ferrara Frost/Nixon, della compagnia Teatro dell’Elfo che celebra quest’anno i quarant’anni di attività. Nelle serate di oggi e domani è in replica al Teatro Comunale la trasposizione teatrale di uno dei più grandi eventi televisivi della storia contemporanea, segnato al suo acme, dall’ammissione di colpevolezza del dimissionario presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon.

Abbiamo intervistato Ferdinando Bruni, uno dei due registi, all’indomani del debutto ferrarese.

Quali sono state le spinte verso la produzione di un lavoro tanto rischioso in termini di grande pubblico?
Siamo stati colpiti e convinti dalla forza di questo testo teatrale di Peter Morgan. Un testo formidabile scritto da un uomo di cinema e televisione alla prima prova teatrale. Come è risaputo, da quel testo è scaturito il film di Ron Howard “Il duello” del 2008, con la sceneggiatura dello stesso Morgan. Abbiamo fatto diverse riflessioni sull’attualità e le analogie del lavoro dello sceneggiatore, rispetto al presente italiano, ferme restando, ovviamente, anche le inevitabili divergenze. Il testo originale comunque non è stato modificato in alcun modo, a parte sfumature di traduzione.

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Una scena

Siamo a metà degli anni ’70, quando il giornalista britannico James Frost decide di riscattare il proprio successo negli Stati Uniti, dopo essersi fatto conoscere nella sua Gran Bretagna e in Australia come brillante e spregiudicato anchor-man. Questo l’incipit della sua caccia a Nixon.
Frost, più incline alla satira che all’approfondimento, distante quindi dal mondo della politica, cerca indefessamente il grande scoop sulla testa di Richard Nixon, fiuta il colpo di scena, e alla fine riesce nell’intento, portando oltre 45milioni di persone davanti alle sue telecamere (ancora niente a confronto dei 400milioni di spettatori americani incollati allo schermo nel 1974 davanti alle dimissioni dello stesso Nixon). Frost aveva intuito bene che la televisione e il giornalismo d’inchiesta teletrasmesso in quegli anni di scandali e rivelazioni di intrighi presidenziali avrebbero assieme creato una miscela potentissima, capace di far sobbalzare l’intera opinione pubblica degli Stati Uniti.

A questo proposito, domandiamo a Bruni se si possa parlare di un lavoro che punta a sottolineare il potere della televisione sulla politica e se questo non abbia spaventato i due registi rispetto al senso di estraneità popolare nei confronti della politica.

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Ferdinando Bruni e Elio De Capitani

Sapevamo bene di indagare sul potere mediatico della televisione in un tempo come il nostro in cui si parla di colonizzazione dell’immaginario da parte della tv stessa, e allo stesso tempo di crescente disaffezione politica di tanti ormai pronti solo a seguire gli show personalistici di politici in passerella eccetera… Ma allo stesso tempo volevamo portare una tv lontana dentro un teatro contemporaneo, volevamo seguire un testo brillante e avvincente scritto da un uomo capace di mettere il cinema dentro al teatro, e soprattutto volevamo (e ci siamo riusciti) bucare la quarta parete convertendo il palco in uno studio televisivo allegorico, rivolto con le sue voci e i suoi sguardi alla “grande telecamera” rappresentata dal pubblico di fronte. Questa è stata la nostra sfida.
Il lavoro dell’Elfo aderisce fedelmente al fortunato testo di Morgan, ed è stato altrettanto efficace nel trasporre le famose interviste tra i due mattatori. Attraverso un forsennato montaggio di dialoghi e quadri teatrali, si ricompongono viaggi, traffici di denaro, telefonate, interviste, riuscendo a rendere in poco meno di due ore la densa serie di accadimenti che anticipano il momento clou della confessione.

Se Frost aveva scommesso tutto sul volano moltiplicatore del mezzo televisivo, non avete temuto che lo sguardo del pubblico a teatro non riuscisse a restituirgli la forza di quei lunghi round televisivi?
No, eravamo convinti ripeto della forza e dell’efficacia del testo su cui si lavorava. Con otto attori in scena, otto poltrone da ufficio semoventi, diversi monitor sparsi sul palco, siamo riusciti a restituire al pubblico un concentrato vivace e a tratti furioso di una vicenda umana e mediatica durata circa due anni di ricerche, spostamenti, studi televisivi e salotti privati.

Il risultato per lo spettacolo di Morgan fu un successo acclamato da Londra fino a Broadway con ben 137 rappresentazioni: anche l’Elfo ha raggiunto un simile traguardo?
Beh, quasi. Nelle due programmazioni siamo finora riusciti a superare le 100 repliche di Frost/Nixon e ne siamo molto contenti. Ieri sera, la prima qui a Ferrara è stata una riconferma della buona risposta del pubblico ad un lavoro comunque di matrice storico-sociale, per quanto il mestiere di chi fa teatro sia di umanizzare tutto, renderlo il più possibile immaginabile e fantastico assieme.

L’Elfo mette in scena un dramma incalzante e strepitoso, un congegno perfetto alla stregua di un thriller, disseminato da una serie di dettagli, di riferimenti storici spesso simboli e allegorie, per raccontare il potere e la sua farsesca manipolazione, la politica e la sua simbiosi con i mass-media. Non crede che oggi, la sovraesposizione mediatica dei politici sia l’ultimo baluardo della loro stessa credibilità, che la cura maniacale della loro immagine e della loro retorica (pensiamo al ruolo attuale degli spin doctor) sostituiscano ormai la loro credibilità morale o quantomeno politica in senso stretto?
Sì, credo sia così e lo vediamo ogni giorno proprio attraverso la tv e i suoi derivati. Ma questo era già vero negli anni ’60 e ’70, quando un Nixon meno esteticamente credibile di Kennedy, si trovò ad ammettere che la sua sconfitta alle presidenziali fosse stata in buona parte una questione di immagine, facendo anche riferimento (nello spettacolo, ndr) alle sue sopracciglia sudate.

Qualche passo indietro. L’evento mediatico messo in scena è datato 1977; una decina di anni prima il cineasta filosofo Guy Debord aveva coniato l’espressione “società dello spettacolo”, preannunciando la mistificazione di cui la televisione è stata padrona nei confronti dei rapporti sociali ed economici almeno sui nostri paralleli. Oggi si parla di società della comunicazione digitale, di sovraesposizione mediatica da parte dei politici in brillante agonia davanti alla fine della sovranità statale, ridotti a personaggi, continuamente parlanti, onnipresenti sui social, artefici di sempre nuovi e tecnologici storytelling (compresi i tweet, le perfomance ai talk show), insomma il potere politico pare declinarsi sempre più a potere della comunicazione, della narrazione.

Crede che questo passaggio sia stato preso in considerazione nella vostra messa in scena, forse attraverso l’allegorica schiera di monitor o l’implacabile e precisa retorica dei due protagonisti?
Certamente. Abbiamo cercato di attualizzare il più possibile l’incontro tra Nixon e Frost, comprimendo i tempi delle conversazioni, mantenendo un ritmo alto e quindi volutamente televisivo (per come lo intendiamo oggi… pensi che quelle interviste duravano in realtà oltre un’ora ciascuna).

Durante lo spettacolo convergono sul palcoscenico la forza ipnotica di quelle famose interviste e la cura del dettaglio espressivo-drammaturgico, dimostrando forse che i due luoghi dell’espressione e della narrazione (tv e teatro) non sono sempre così antitetici, ma anzi, il secondo può decontestualizzare il primo, riesumarne un episodio memorabile, drammatico e spettacolare ad un tempo. E’ così?
Sì, in questo lavoro si può dire che la televisione sia in scena con gli attori o meglio, la loro telegenia sia il più possibile e al meglio drammatizzata, quindi recepita per il suo effetto scenico più che per il suo originario (e sempre discutibile) compito informativo.

Si nota un grande lavoro di finitura su due protagonisti: Elio De Capitani nel ruolo di un Nixon, tratteggiato come caimano americano, divo di gomma tronfio ed egolalico, e Ferdinando Bruni, nei panni dell’ambiguo performer da talk-show, patinato, ex comico mondano e vanitoso, interessato forse più all’audience e al jet set che all’inchiesta vera e propria. Si ha quasi l’impressione che dei due a confronto, il teatro metta in maggior risalto il lato più mostruoso, l’abbietto.

E’ vero allora che a teatro i cattivi vincono sempre?
Forse è così fino a un certo punto. Il nostro Nixon è volutamente attualizzato e quindi enfatizzato, vince per un lungo lasso di tempo, conquista pubblico e stampa, ma alla fine perde e perde tutto.

Avete arricchito e deformato i due personaggi per attualizzarli ai nostri protagonisti della politica?
Abbiamo cercato di delineare il loro carattere sulla falsariga dei biechi potenti di casa nostra, forse più seducenti e smargiassi, ma anche più pacchiani rispetto al mondo anglosassone.

Durante la pièce sono molte le risate che risuonano in platea. Come ve lo spiegate rispetto a un’ipotesi di sconcerto o disgusto davanti allo spettacolo di una disfatta morale di un presidente?
Si sa, si ride sempre del dolore altrui e comunque, ripeto, questo è un testo che sa essere esilarante ed allo stesso tempo grottesco… sono spesso risate amare generate dai lunghi giri di parole di Nixon, le funamboliche digressioni, la sua infaticabile ars retorica (le viene in mente qualcuno?) che in ultimo lo rivela appunto ridicolo.

Si è parlato di effetto farsa dello spettacolo. E’ un effetto voluto?
La trama di questa storia si basa su situazioni e personaggi stravaganti, si mostrano eventi, storie e atmosfere di quei lontani anni ’70 declinate in modo certamente grottesco e irrazionale. Anche se la farsa è prevalentemente comica e il nostro lavoro non ha l’obiettivo della comicità, si può parlare di un dramma che si conclude in farsa.

Un’ultima domanda, in questa lunga tournée italiana avete notato differenti pubblici nelle diverse città italiane?
Solo a Roma, al teatro Argentina, ci siamo trovati davanti a un pubblico con molti rappresentanti politici… lì forse, qualche silenzio in più, lo abbiamo avvertito.

“Frost/Nixon”, prodotto da Teatro dell’Elfo e Teatro Stabile dell’Umbira, con Elio De Capitani/Ferdinando Bruni, regia di Elio De Capitani/Ferdinando Bruni.

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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