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L’unica cosa certa che so della mia vita è questa faccia che ogni mattina mi specchio. È così certa che nel tempo l’ho vista cambiare, da quando ero fanciullo e non ricordo se allora facevo caso al mio aspetto. Ora sì! per via del tempo che è passato. La faccia, il volto, il viso è una mania: lì sono io, lì sono gli altri. Il riconoscimento di me e di loro. Si dice perdere la faccia, screditarsi, non essere più credibile, insomma la tua faccia non funziona più con gli altri. Ogni volta che incontro qualcuno, anche dei miei amici, mi sorprendo che i miei occhi si attardino a indagare gli aspetti di quei volti nei minimi particolari, una verruca, un pelo che spunta inopportuno dal padiglione di una orecchia, dalla narice del naso. Il volto dell’altro mi anticipa sempre il senso delle sue parole, non sarei in grado di immaginare parole senza volto, di svelarmi il loro significato senza collegarle ad una faccia che parla. Avete mai fatto la prova con gli speaker televisivi? Ce ne sono alcuni che non possono che pronunciare le parole che pronunciano.
Insomma le parole non sono collegate alla nostra faccia per via della sola bocca, ma per le espressioni a cui la costringono a seconda di quello che dalla nostra bocca esce. Provate a dire parolacce od a urlare e vedrete come muta il vostro viso, tanto che alcuni ci dicono che quando siamo irati diventiamo addirittura irriconoscibili, non basta, sembriamo perfino un’altra persona.
La cosa più insopportabile è quando ti dicono – Cos’hai, oggi? Non sembri più tu! – E alla mattina quando vi siete specchiati, non ve n’eravate accorti. Tutto vi sembrava come il giorno precedente.
In conclusione questa del volto, come direbbero gli psicologi, è la nostra identità, per noi e per gli altri.
Io mi chiamo Giampiero. Già! a complicarmi la vita i miei genitori hanno pensato di darmi un nome doppio, composto. Per cui se mi chiamano solo Gianni o solo Piero non sono mai io: perché io sono Giampiero, e tutto attaccato!
Ma non sono un Giampiero e basta, come ce ne sono tanti. Io sono Giampiero Spada. E pure i miei amici e i miei parenti sanno che io sono: Giampiero Spada. E allora come può essere che tutto d’un tratto, da un giorno all’altro il tuo volto non è più quello che ancora il giorno avanti aveva Giampiero Spada?
Vi è mai capitato di specchiarvi una mattina e la vostra faccia non è più quella che avevate la sera prima? Provateci! e poi ne parliamo. Mica potete uscire. Come vi chiamano? Come vi riconoscono? Come vi salutano? Chi siete, se non siete più Giampiero Spada?
Chi si è fraudolentemente impossessato di voi? Ma dentro di voi sarete sempre gli stessi anche se la vostra faccia è cambiata? ecco tutte le domande angoscianti che mi presero quella mattina alla scoperta della mia faccia mutata.
Non è che ero ringiovanito, quell’inquilino abusivo di me stesso doveva essere pressappoco della mia età, vecchio come me e se io mi interrogavo a questo modo e con questi pensieri, doveva pensarla anche lui come me. Lui ed io eravamo forse identici, ma con due facce diverse? O ero sempre io, vittima di una strana metamorfosi della natura che non mi aveva fatto bacherozzo come il signor Gregor Samsa, ma aveva processato sul mio volto un’autentica plastica facciale. Io preferivo propendere per questa seconda risposta ai miei inquietanti interrogativi.
Cosa fa secondo voi uno che d’improvviso si trova con un’altra faccia che non è la sua?
Primo non ci crede. Primo crede che una cosa simile non possa accadere, che sia la sua vista ad essere ancora appannata dal sonno, che forse non è sveglio, sta solo sognando. Allora evita lo specchio, si spoglia e si mette sotto la doccia. Fredda, tonificante. Quando esce e si asciuga bene nel telo caldo, morbido, accogliente controlla che le parti del suo corpo, quelle che può vedere siano sempre quelle di prima. Lui tra le gambe mi sembra quello di sempre, sì sono sicuro, beh, quasi sicuro. Ma certo è lui, il mio inconfondibile compagno di una vita. Poi le mani. Le mani sono un segno di identità inequivocabile, le tocco, certo sono proprio le mie, quelle di sempre, la sensazione è la stessa delle altre volte, di ieri e dell’altro ieri. Mi tocco, mi accarezzo, le passo tra i capelli … Come, i capelli? I capelli! ma non ce li ho. Non ci sono! liscio, liscio, tondo, tondo … Ma sono sicuro, sicurissimo, ieri ce li avevo. Ieri sera li ho pettinati, come tutte le sere prima di coricarmi, perché non prendano delle false pieghe. Mi precipito allo specchio, accidenti! Non sono più io. Ma chi è quello lì che si è preso la mia immagine allo specchio?
Calma Giampiero. Calma Giampiero. Prima o poi nella vita, ad una certa età può capitare, si chiama alopecia androginica, è quasi normale, comune calvizie, colpisce circa l’ottanta per cento dei maschi entro i sessant’anni. Ci deve essere stata una tempesta ormonale questa notte, non esiste una previsione meteo del corpo. Che tempo farà nel corpo di Giampiero? Son cose che vengono con gli anni … prima o poi … Sì. Allora i miei capelli, più bianchi che neri devono essere rimasti cadaveri sul cuscino, tra le pieghe delle lenzuola. Mi precipito a cercare, no, non ci sono, nessun segno, neppure un pelo. Svaniti. Sfibrati nell’aria. Nessuna traccia sui pavimenti brillanti di ceramica della casa. Puliti, scopati, lustrati. Delle stanze d’ospedale.
Forse, penso, ho perso solo i capelli. È inevitabile che abbia cambiato espressione. Che mi sia parso d’essere irriconoscibile. Non capita tutti i giorni d’essere calvo all’improvviso. O forse non m’ero ancora accorto che già da tempo li perdevo, di chiazze qua e là. Che la mia nuca era oramai spoglia. Chissà da quanto tempo.
Con questi pensieri intanto mi ripresentavo al verdetto dello specchio. Questo volutamente mi rimandava la piazza pulita del mio capo, di cuoio lucido, un po’ grasso, che decisamente non mi piaceva. Non era la mia testa. Era una faccia larga, a tutto tondo, le gote pronunciate contro il mio volto asciutto, senza mento contro le mie mascelle sostenute. Le sopracciglia sottili, io ricordavo d’avercele più spesse, più folte, più lunghe sull’arco sopraccigliare. E anche gli occhi non erano più i miei. Grigioverdi come le divise militari. I miei erano neri. Oddio, io li vedevo neri. Non mi restava che documentarmi, che cercare in casa una qualche mia fotografia. Cosa di meglio della mia carta di identità? Fu così che non ebbi più dubbi sulla sentenza dello specchio. Quel volto non era più il mio. La carta di identità era chiara: capelli brizzolati, ero calvo; occhi castani, erano grigioverdi; usa lenti …. Ora ci vedevo benissimo senza. L’unica cosa che coincideva era l’altezza, uno e settantotto. Sì, mi sembrava di aver mantenuto grosso modo la stessa. Anche la corporatura non mi sembrava cambiata. Non mi restava che vestirmi.

II

La vestizione fu la conferma che non avevo cambiato taglia e neppure numero di scarpe, almeno alla tragedia di aver cambiato identità, e su questo non c’era alcun dubbio, lo asseriva con certezza la mia carta d’identità, non si accompagnava la disgrazia di rifarmi tutto il guardaroba. E poi come avrei fatto, se non avessi potuto più indossare i miei vecchi abiti, le mie vecchie scarpe, solo a uscire di casa? Non pensiamoci.
Una cosa mi sembra buona: che io sono sempre io. Voglio dire che dentro di me mi sento come sempre, come sono nato e cresciuto, se non fosse per la faccia che non mi ritrovo più.
Voglio dire che questa faccia nuova non contiene una testa nuova, una mente altra da me, pensieri che non sono i miei. O per lo meno non me ne sono accorto. E che ne so, se con una faccia nuova si pensa anche nuovo? Per il momento non l’avevo ancora scoperto. In sintesi ancora credevo che fosse la forma ad essere mutata e non certo la sostanza. E questo in qualche modo forniva una consolazione per quello che mi capitava.
Ma che faccia avevo? Quale somiglianza poteva evocare?
Ora che ero vestito tornai allo specchio. Io, con quella faccia lì, non conoscevo proprio nessuno. Giuro che non l’avevo mai vista prima. Notai subito una cosa incresciosa: com’ero vestito non s’intonava con la mia nuova faccia.
No la camicia, no la cravatta, no soprattutto la giacca. Come si vestono le facce tonde? Pretendono colori, luci diverse da quelle oblunghe come ce l’avevo prima? Gli abiti che indossavo decisamente non potevano appartenere a quel tipo, con quel volto. Forse le facce tonde hanno bisogno di righe, di fantasie anziché di tinte unite. Neanche le scarpe mi sembravano più le sue. Scarpe con le stringhe. No. La mia faccia ora mi diceva che avrebbe gradito qualcosa di più comodo, quasi a pantofola, almeno un mocassino, almeno una clarks. Provai a rovistare nell’armadio alla ricerca di qualcosa di più adatto alla mia nuova condizione, perché da quando mi ero riguardato allo specchio provavo disagio a stare negli abiti di tutti i giorni, negli abiti abituali. Insomma, non mi erano proprio più miei.
Con questo soma piovuto non si sa come e non si sa da dove riuscii a vestirmi che mi pareva di star bene, di aver trovato una sintonia con i miei nuovi lineamenti.
Oramai erano diverse ore dacché m’ero alzato e la speranza, che dentro covavo senza il coraggio di palesarmela, ovvero che il fenomeno potesse essere passeggero, andava vie più scomparendo. La rassegnazione. Altro non mi restava. La disposizione, considerata virtuosa, di chi si adegua consapevolmente a uno stato di dolore o di sventura. Dolore certo. Chi non avrebbe dolore a non incontrare più la faccia amica del suo corpo, avere un corpo con un’altra faccia. Cosa da impazzire. Non voglio credere che tutto questo mi succeda, perché non ci sto più di testa. No, no, la testa è sempre la mia, è solo la faccia che è mutata, e non è con la faccia che si ragiona. Per quanto riguarda la sventura, non conosco ancora cosa la vita mi riserva con questo nuovo aspetto che mi ritrovo.
In fondo è solo la faccia che mi è cambiata. È come se fossi scampato ad una cura o ad un evento devastante, portando a casa la pellaccia.
Forse ora mi porto addosso una faccia del mio albero genealogico, qualcosa che già era dei miei antenati. Provo a rivedermi i volti di mio padre e di mia madre, ma niente di loro mi suggeriscono questi tratti. Dove stava questo mio viso? Perché è mio. Io ce l’ho adesso. Doveva pur stare scritta in qualche mio gene questa metamorfosi improvvisa. Non può essere così straniero alla mia natura, alla mia storia biologica l’aspetto che ora mi è estraneo, È come se scoprissi che Copernico ha sbagliato. Forse la Terra non sempre gira, forse non sempre sorge il Sole. Forse crediamo di sapere, ma non sappiamo. Non so la storia di questo volto nato dal nulla, partorito in una notte, sfuggito a una persona che lo cerca, come io cerco il mio.
Forse alla precarietà della vita s’accompagna la precarietà del nostro aspetto, che non è sempre quello prodotto dal passare degli anni, dal loro levigare, dal loro corrompere, c’è una precarietà che ad alcuni giunge inaspettata, mai pensata, figlia della mostruosità che può produrre la loro immaginazione.
Mostro ero, senza averne l’aspetto. Un fenomeno mostro, quello che per gli altri era il mio riconoscimento, ora non riconosce più me. Quel volto alla vista dei miei simili non sarà più Giampiero Spada, perché non lo è. Chi sia? Dovrei girare per la città alla ricerca di qualcuno che lo riconosca, che gli dia un nome e un cognome, che lo chiami per nome, che mi consenta di ricercarne il padrone e chiedergli: perché? Già dovevo uscire da quella che ora non era più la mia casa, divenuta la tomba del mio volto. La mia faccia doveva avere un’altra abitazione. Già aveva preteso altri abiti da me. Altre abitudini, altri luoghi frequentava quel viso, altri scambi, altre relazioni, altri sguardi sulle cose, altri modi d’apprendere il mondo.
Certo non dovevo avere paura d’uscire, perché nessuno m’avrebbe riconosciuto come Giampiero Spada, e se fossi stato riconosciuto lo sarei stato nella mia nuova identità e forse sarebbe iniziata la mia strada verso la liberazione. Ero nelle mani degli altri, anche di uno solo a caso, mai conosciuto, che avrebbe pronunciato un nome ed un cognome che al di sopra di ogni cosa attendevo di udire.
Il pensiero che mi dominava era quello d’essere sicuro che ora vestivo com’era d’abitudine per il mio volto nuovo, affinché non ci fossero ostacoli al riconoscimento da parte di chi lo frequentava, da chi ne godeva la familiarità, da chi non poteva fallire nella sua identificazione. Mi sentivo come un personaggio di teatro che l’attore deve interpretare, in modo che vi sia tutto della sua figura e nulla del suo attore.
Uscire? Mi ci voleva coraggio. Cosa mi poteva capitare di non calcolato, di non previsto? L’aria non poteva cancellare il nuovo volto, ma solo trasportarlo fino agli occhi degli altri. Stamparlo sulla retina, innestare il meccanismo sì, no, ti conosco, non ti conosco.
Ma i ritratti non sono mai la loro naturale raffigurazione, spesso non assomigliano al soggetto individuale, perché noi guardiamo attraverso gli occhi, ma vediamo con i pensieri che pensiamo.
E se fossi rimasto per sempre, per il resto dei miei giorni, anonimo?
Essere me stesso non mi era più sufficiente per sapere chi ero. Da Giampiero Spada ormai mi separava un volto, non mio, un volto con un’altra storia, un volto di un’altra storia.
E se fossi stato riconosciuto per sbaglio, per scambio di persona? Come potevo saperlo? Assumendo un’identità falsa su un’identità non mia?
E poi chi era, prima di pervenire al mio corpo, prima di rivestirsi del mio io, questo volto? Evaso dalla sua vita, evaso dal suo corpo. Perché?
In quali guai avrebbe potuto cacciarmi una sua eventuale identificazione?
E se avessi deciso di mascherarmi? Avrei aggiunto maschera su maschera, persona su persona in un estremo di confusione.
Mi ricordai le parole di un’amica della Prefettura. – Le uniche maschere che posso tollerare sono quelle che usano i corpi speciali delle forze d’ordine e solo se serve nell’esercizio delle loro, proprie funzioni … non chi le usa nella vita quotidiana …-
Ma io che cosa dovevo fare? La mia non era una maschera, era una faccia vera! Ma non la mia. E non potevo dire d’essermi camuffato.
Non si può avere una faccia nuova e poi nascondersi. Bisogna accoglierla, portarla in giro, spiegare che cosa ti è capitato … E certo non potevo andare per la strada a dire: Io non sono quello di questa faccia. Io sono Giampiero Spada. E come si chiama la sua faccia non sua? Non lo so.
Ero destinato come minimo a non essere creduto. Non sarei sfuggito a un trattamento sanitario obbligatorio. Non ne sarei più uscito. Come spiegavo chi ero?
Ecco che cosa dovevo fare, navigare nel mare del sociale. Navigare a vista con la speranza di incrociare il mio vascello. Sì, quello! In questo caso proprio il mio vascello fantasma.

III

Mi ero detto che se avessi incontrato qualcuno di mia conoscenza non l’avrei potuto salutare con questa faccia. Uscendo di casa non avevo incontrato nessuno dei miei vicini, solo due persone a me non note che entravano con la chiave nell’appartamento accanto al mio, forse degli ospiti o forse dei nuovi inquilini. È certo che non li avevo mai visti prima.
La giornata era bella e l’aria mi sembrava nuova. Ora mi sentivo accarezzare la faccia, con l’insolita sensazione di non essere più io a sfiorare l’aria, ma l’aria stessa che sfiorava me.
Il mio stato inatteso, eccezionale, mi sembrava la grazia di una distrazione provvidenziale, tanto da non considerare la stranezza del mio caso, tanto da considerarmi fuori dalla mia vita di prima.
Ero io, non ero io? non lo so.
L’aria, la giornata piena andavano a lenire i miei scrupoli di prima. Guardavo gli altri, uomini e donne, come non li avevo mai fissati alla mia vista. Guardavo per intercettare una conoscenza. Ma per ogni passo che facevo, per ogni marciapiede che attraversavo non c’era alcuno che già conoscessi. Poteva essere normale, per la vita che faccio, di persone non ne conosco più di tante. Non era male, questa situazione, mi liberava naturalmente dall’imbarazzo di cui dicevo. Veduti con gli occhi di questa mia nuova faccia, anche i luoghi mi si presentavano strani, o certo era solo un’impressione, dovuta più al disagio d’essere io ed apparire invece come un altro.
Ma ora che ricordavo le ragioni della mia uscita, dovevo ricercare qualcuno che mi conoscesse nel mio nuovo stato. Qualcuno che io non so chi è, ma che lui sa chi sono io.
È come attendere la vita da un altro, è come essere in gestazione, incinto di te stesso, ma incapace di vedere la luce, fino a quando non giunge qualcuno a tirarti fuori dal tunnel della tua nuova nascita.
Io non sapevo se ero nessuno o Giampiero Spada. Forse non potevo essere né l’uno, né l’altro. Certo una cosa era sicura: Io ero! C’ero, esistevo, ero lì. Concreto, vivo, esistente!
C’ero con la mia storia. Ora con due. La storia del mio corpo, che ancora non mi pareva mutata. La storia della mia faccia che ancora non conoscevo.
Per fortuna l’uomo si distrae facilmente. In quell’istante tutto il mio passato, quello più recente, quello più immediato, l’avevo dimenticato. Se avessi pensato alla stupidità della vita per la sua noia, non avrei avuto ragione di lamentarmi. Forse per la prima volta la mia vita si faceva davvero interessante.
Noi ci adattiamo poco a poco a considerarci sempre gli stessi, all’abitudine dei nostri aspetti, ci adagiamo nella nostra piccolezza, nella nostra insignificanza, in un universo ristretto, privo di scoperte e invenzioni. Nelle nostre miserie particolari. Viviamo in un mondo dilatato senza essere poi in grado di dilatarci nel mondo. Io in quel momento potevo essere due anziché uno. Come gli slogan del mercato: paghi uno e ne comperi due.
Quanti disastri accadevano in questo momento nelle parti a me più lontane della Terra. Quante vite cessavano di vivere. Quante disgrazie. A me nulla di tutto questo stava succedendo. Forse semplicemente la mia vita, la mia vita personale si arricchiva di una nuova esperienza. Forse non avevo ancora conosciuto fino a quel momento la mia vera natura interna.
Forse la fortuna aveva deciso di prendersi la mia faccia. Alle mie nuove sembianze non competevano obblighi, si manifestavano agli altri senza scrupoli di sorta. Ero certo una menzogna, ero certo l’inganno del mio prossimo.
Non avevo famigliari che mi potessero cercare, forse parenti lontani. Non avevo negli occhi neppure i volti di mio padre e di mia madre, sbiaditi nei ricordi. Sfocati dal tempo. Forse i volti per me non erano le persone. Provavo a cercare le immagini, le fotografie della mia mente. Solo storie sapevo. Degli altri conosci le storie, delle pagine sparse, lasciate dagli incontri.
Che importanza avevano i volti di mio padre e di mia madre, che importanza ha il tuo volto se non sei nessuno?
Quelli che contano hanno i ritratti appesi nelle gallerie. Tutti gli altri non sono che appesi al filo fragile della memoria. Non si può per tutti rivedere il film. Non è vero che siamo attori, siamo sempre e solo comparse. Che importa se la maschera un giorno non è più la stessa.
Quando avrai finito di recitare la tua parte, altre maschere si succederanno sul nostro palcoscenico quotidiano a cancellare la tua apparizione. Anche il tempo è un’invenzione, la sua durata non supera la tua esistenza.
Questi passi di persone che affollano la strada, come tante lancette di uno stesso orologio diurno, non scandiscono il tempo, ma il suo flusso, il suo succedersi negli accadimenti dei nostri giorni, l’intrusione nel nostro essere, le scelte che non abbiamo mai scelto. Nella tua vita non sai mai se è più l’altro da te che il te da te.
E allora che conta se sono Giampiero Spada o un altro, tanto l’impasto è sempre lo stesso e a impastare non sei mai tu solo. È qualcosa nell’impasto, negli ingredienti di altri, che non sono riuscito ad evitare, che deve aver portato a questo risultato, che la mia faccia non è più la mia o quella per la quale ci avevo fatto l’abitudine.
Ma a navigare per lo spazio della città succede che non riconosco e non sono riconosciuto. Ma si sa, le città ormai sono straniere e noi siamo stranieri alle città. Pensare ad un incontro di riconoscimento, ad una epifania, quando le distanze non sono più solo le strade ma anche le persone, è come scoprire la bolla pressurizzata della tua solitudine.
L’identità che c’hai per gli altri, quando poi la cerchi, quando ne hai bisogno, ecco che gli altri non te la restituiscono. Possibile che non sia nessuno Giampiero Spada e questo volto che si porta appresso?
– Professore, cosa fa? È uscito da solo? Ma non lo sa che è pericoloso per lei…?
Professore? Pericoloso? Con chi parla la signora? È a me che si rivolge? Sì, mi sembra di sì. Qualcuno mi parla, qualcuno ha riconosciuto il volto che porto. Dovevo uscire, avevo ragione. Il mio vascello fantasma è alla rada. Mi tiene per un braccio e vuole che la segua. Ha forza nelle sue mani, mi tira… È alta, robusta, bionda e rossa come le donne slave.
– Come professore, non mi riconosce? Sono Irina, la sua badante. Su, venga che la riporto a casa.
E, dunque, quello che io non sono, l’altro, quello della mia nuova faccia ha una badante. La signora ha riconosciuto chi sono io, no, voglio dire, non chi sono io, che già lo so, ma la faccia che porto, a chi appartiene il viso che ora esibisco. Lei sa chi è. Di chi è. Chi ha perduto questo volto che non è il mio.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

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Caro lettore

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