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Avete mai pensato alla nostra scuola come a una incubatrice? Entri a sei anni e ne esci a diciotto, se tutto va bene. Se l’incubatrice o l’incubato non hanno crisi di rigetto. Entri che non sai né leggere né scrivere, esci che sai di lettere, di matematica, di fisica, di lingue e di filosofia. Insomma esci che sei quasi una enciclopedia, una persona colta. Appunto coltivata, incubata.
Per che cosa? Per l’università o per il mercato. Che non ti prenderanno così come esci dalla scuola, perché a loro volta ti vorranno fare l’analisi del sangue. Occorre che nel frattempo non ti prenda il sospetto circa il senso di quello che vai facendo. Perché fa parte delle regole di partecipazione alla cultura della tua specie. Agli animali va meglio, il periodo dell’addestramento è molto più breve rispetto agli umani e poi sono liberi di scorrazzare nella natura.
Noi la natura dobbiamo invece dominarla, governarla. Noi dobbiamo costruire le cattedrali antiche e moderne. Noi dobbiamo servire la nostra generazione, quelle che ci hanno precedute e quelle che verranno. Noi viviamo e cresciamo per il grande contenitore che ci contiene che sono i nostri simili. È questo contenitore che ci dà senso, a partire dai nostri genitori che ci hanno desiderato. Sono loro che hanno iniziato a scrivere la nostra narrazione.
“Ciascuno cresce solo se sognato” recitava Danilo Dolci e il grande psicologo statunitense Jerome Bruner aggiunge che “Non si ha una vita se non la si racconta”. Avere una vita da raccontare, avere una vita perché qualcuno ti ha sognato. È possibile passare da una scuola che incuba cittadini, a una scuola che li sogna? Che racconta la storia di ragazze e di ragazzi per ciascuno dei quali coltiva un sogno? Se non sei una storia da raccontare, se non appartieni a un sogno, sei un indistinto, uno dei tanti da prendere quando è giunto il tuo tempo e da mettere insieme agli altri nel reggimento di una caserma o nella classe di una scuola. Dipende dalla tua età e dal tuo destino.
Comunque quando è ora inizia anche per te il tuo addestramento. In fila con gli altri, in banco con gli altri, con la divisa o senza la divisa, non ha importanza, perché per tutti sarai un alunno, un allievo, un discente, uno studente, uno scolaro, sarai per quello che farai, mai per quello che sei, un essere ordinato in un luogo, in un’ora, in un’attività, in un fluire del tempo tutto uguale a quelli dei tuoi simili per età e per destino.
La raccolta dei nostri affetti nell’anonimato di uno spazio, di un luogo, di un tempo. Classi, scuole che sono non luoghi, come sale d’attesa della vita. Ecco il trattamento quotidiano che riserviamo nelle scuole della repubblica ai nostri figli e alle nostre figlie. Loro portano il peso degli zaini, come ogni soldato alla battaglia, noi portiamo il peso delle nostre responsabilità. Dell’incapacità di offrirgli una scuola diversa, che non sia più quella dei nostri tempi, che non sia più il regime-scuola, che non sia più “la scuola”, che non sia più imparare dal banco, dalla lavagna, dal libro di testo, dalla voce dell’insegnante.
Noi portiamo il peso della nostra pigrizia intellettuale, della pigrizia di chi dovrebbe praticare la cultura e invece la consuma senza rigenerarla, perché non ha spirito, perché non ha invenzione, perché non ha intelligenza. Portiamo il peso di finanziare intellettuali senza intelletto, ripetitori, megafoni del passato, lacchè del politico di turno. Non siamo capaci di pensare e di disegnare un’altra scuola, un altro modo di imparare, una nuova umanità di apprendimento. Grigie cattedre di pedagogia senza fantasia, senza la sete del nuovo, nel totale squallore intellettuale, incapaci di immaginare una scuola diversa, una scuola nuova da offrire ai figli del nostro Paese.
Sono morti i tempi dei grandi pedagogisti, dei maestri quotidiani, coraggiosi pionieri di ogni innovazione, portatori di spiragli di luce nella monotonia delle nostre scuole. Pare che l’obbligo scolastico sia per le persone, non per lo Stato che non si occupa delle condizioni che impone. Come l’obbligo militare una volta. L’obbligo da noi fa dovere al cittadino ma non all’istituzione.
Se l’istruzione è un diritto è come il diritto alla vita, alla libertà di espressione, il diritto è una libertà non un’oppressione. La cultura non è schiavitù, non è umiliazione, non è mortificazione, è liberazione, non è sopraffazione dell’accademico sul discente, è affiancamento, incoraggiamento, accompagnamento, gratificazione. La cultura è apertura, è l’ossigeno che ovunque si respira, è la fame di sapere, si nutre dalla nascita e dalla nascita si familiarizza, dopo è troppo tardi. Ma anche questo è da sapere, anche questo è da capire.
Dopo c’è solo la liturgia, l’ingessamento della lezione, la nozione, l’esercizio, la ripetizione, i voti, l’interrogazione e gli esami.
La cultura invece è un abito da apprendere subito, è applicazione, è provare, è riuscire, è conquistare, è misurarsi nel saper fare, riprovare e riprovare se necessario, è come le cose e la vita di tutti i giorni. Non è un compartimento separato, una tradotta su cui salire senza destinazione, tutti indistintamente ammassati.
L’istruzione è un obbligo, come l’obbligo di nutrirsi per non lasciarsi morire. “Nutrire il Pianeta” è lo slogan di Expo 2015. Istruire il Pianeta, forse sarebbe stato preferibile, ma non abbiamo sull’istruzione un “eataly”, cibi di alta qualità da distribuire, nessuna riflessione sull’istruzione sostenibile oggi. La pancia è meglio della mente, del resto a pancia vuota non si ragiona. Evidentemente la pancia del nostro Paese da troppo tempo è vuota per essere in grado di ragionare sulla scuola dei suoi figli.
Che va bene così, perché così è sempre stato, perché la scuola deve formare dei buoni cittadini e poi ognuno se la vedrà, perché non abbiamo soldi e poi, tanto, è mica a scuola che si impara… A scuola si socializza, si apprende a superare le frustrazioni, ci si abitua all’impegno, ai compiti, ad essere valutati, la scuola irrobustisce. Insomma la scuola è una palestra!
Ah, dimenticavo, l’educazione fisica della vita … l’istruzione è tutta un’altra cosa.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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