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E’ abbastanza facile dimostrare che la cosiddetta concertazione c’entra assai poco con gli schemi classici della democrazia rappresentativa, che prevedono modelli in cui la legittimazione del governo si fonda esclusivamente sull’esito del voto popolare a suffragio universale ed escludono di conseguenza che i cittadini possano disporre di un potere di rappresentanza ulteriore per il fatto di essere imprenditori, lavoratori dipendenti, pensionati. In una democrazia rappresentativa la ricognizione dei bisogni e delle necessità presenti a livello sociale è il compito principale della politica, che le traduce nei programmi che partiti e coalizioni sottopongono al giudizio degli elettori.
Altra cosa è evidentemente la gestione dei rapporti che riguardano direttamente le forze sociali, la negoziazione contrattuale in primis, che le vede agire in totale autonomia all’interno del quadro legislativo vigente, sul quale tuttavia il potere politico, legittimato dal Parlamento, può intervenire per ragioni di interesse generale.
In quest’ottica la richiesta delle forze sociali di “contrattare” direttamente con l’esecutivo il contenuto delle leggi che approva il Parlamento ha ben poco fondamento ed è tutt’al più assimilabile ad una legittima attività di lobby. Un conto è infatti il dovere da parte di chi governa di ascoltare tutte le voci del Paese, ben altro sarebbe invece l’obbligo di dover ottenere da alcune di esse una qualche forma di consenso preventivo.
Per anni in molti a sinistra hanno ritenuto che il modello della concertazione, che indubbiamente ha consentito in passato al Paese di superare alcuni momenti difficili, fosse l’espressione di una democrazia più ricca e avanzata, nella quale, alla rappresentanza politica espressa con il voto, si affiancava quella sociale, espressa dalle organizzazioni delle diverse componenti che costituiscono la società. Ma è proprio/ancora vero?
In primo luogo si osserva che questo schema ha certamente rappresentato per le forze di opposizione una sorta di elemento di garanzia, che consentiva di estendere il loro potere di interdizione nei confronti di chi governava al di là dei rapporti di forza in parlamento. In un’ottica puramente difensiva, come è stata quella che per anni ha prevalso, è innegabile che questo modello abbia consentito di limitare qualche danno; anche se non a costo zero, perché è emerso con chiarezza che nella percezione dell’opinione pubblica questa sorta di delega impropria della politica alle rappresentanze dei lavoratori appariva come una forma di indebita commistione e confusione di ruoli, che certamente non aiutava ad acquisire consenso chi si proponeva come forza alternativa. In questo modo inoltre chi governava poteva trovare facili giustificazioni per i propri insuccessi, diluendo di fatto la propria responsabilità di fronte agli elettori ed alimentando la percezione di una sostanziale omogeneità e trasversalità nella gestione della cosa pubblica.
C’è poi un problema più sostanziale, perché la concertazione attribuisce un potere assai ampio a forze la cui reale rappresentatività col passar del tempo è tutta da dimostrare, a maggior ragione in un mondo che cambia molto rapidamente. Basta provare a chiedere, ad esempio, quanti imprenditori si sentano oggi rappresentati da Confindustria ed in quale misura, mentre d’altro canto è del tutto evidente che l’esplosione della disoccupazione e del lavoro precario ha lasciato progressivamente scoperte fasce sempre più ampie ed importanti della società, che le tradizionali organizzazioni dei lavoratori obiettivamente non rappresentano, così come la nascita di nuovi modelli di impresa e paradigmi di iniziativa economica (penso ad esempio al terzo settore) ha ridotto di parecchio la capacità di rappresentanza delle organizzazioni datoriali esistenti.
Non è nemmeno accettabile la posizione di chi fa discendere un’ipotetica imprescindibilità della concertazione addirittura dall’articolo 1 della Costituzione, che assegna sì al lavoro il ruolo di elemento fondante del patto sociale, ma certamente non prescrive e nemmeno suggerisce alcun canale parallelo attraverso il quale i rappresentanti delle categorie sociali, anche a voler prescindere dalle modalità della loro selezione, possano essere interlocutori obbligati dei poteri dello stato.
Molto meglio quindi che ciascuno ritorni al proprio ruolo e si assuma per intero le proprie responsabilità: alle parti sociali quella di portare avanti con tutti i mezzi previsti dalla legge gli interessi dei propri associati e a chi governa l’obbligo di elaborare una sintesi che persegua l’interesse generale, lasciando agli elettori le valutazioni sulla sua efficacia ed equità.

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Raffaele Mosca


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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