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E adesso, sulla scia di una tendenza diffusa, per il Comune di Milano si parla con insistenza di una candidatura a sindaco di Giuseppe Sala, commissario unico di Expo e in precedenza amministratore delegato di Pirelli e direttore generale di Telecom. Ma non è così che la politica risolverà i suoi problemi – delegando ai manager – perché la politica non è solamente tecnica, ma prima di tutto visione, cioè capacità di delineare scenari, definire prospettive, orientare il cammino del ‘qui ed ora’ verso una meta attesa e desiderabile.
I tecnici ai vertici delle istituzioni politiche, peraltro, non sono una novità, negli ultimi 20 anni li abbiamo visti più volte, negli enti locali come al governo centrale: Monti, Ciampi, Dini… Le loro competenze sono utili se poste al servizio della buona politica, ma insufficienti se spese al vertice, dove sono richieste anche doti che i manager non sempre hanno. Perché dal vertice devono partire indicazioni di percorso, elaborate sulla base di un progetto, da tradurre e attuare in termini operativi. E per questo il vertice deve essere capace di illuminazioni che vanno oltre l’ingegneristica e sfiorano l’utopia: il politico deve avere la lucida e chiara proiezione sul domani e l’autorevolezza per creare consenso intorno ad essa, saper prefigurare le tappe e i passi da compiere oggi in vista dell’obiettivo da realizzare. I tecnici sono funzionali a questo disegno, ma non possono svolgere quella funzione se non sono dotati di ‘capacità visionaria’.

Questa insistenza sui tecnici e sui manager da una parte appare come una resa, un’insincera abdicazione della politica al suo ruolo: suona un po’ come demagogica concessione alla ‘piazza’, giustamente nauseata dalla condotta da avanspettacolo (o peggio) di molti politicanti incapaci o corrotti.
Ma dall’altra invece si prospetta come raffinato e occulto sistema di controllo di secondo livello, con presentabili manichini in vetrina e la regia ben salda nella mani di chi sta nel retrobottega. Se io premier (tanto per dire) designo ai vertici degli enti locali uomini capaci di fare ma non di progettare, potrò sempre (direttamente o tramite i miei accoliti) esercitare un condizionamento in termini di influenza sulle loro scelte strategiche senza incontrare troppa resistenza.
E’ un pensar male? Può darsi. Ma nell’un caso e nell’altro la cosa è sbagliata. Nel primo caso perché la politica deroga al proprio compito e demanda ai macchinisti la conduzione del treno verso un binario morto. Nel secondo perché i poteri forti sostituiscono la propria capacità di condizionamento al legittimo controllo democratico e restano occulti e intangibili.
Non è poi affatto detto che i due scenari siano alternativi, potrebbero anche agire simultaneamente, rispondendo a due diffuse e strumentali convinzioni, entrambe solide in questa delicata contingenza ed entrambe pericolose: la crisi di rigetto per la politica ‘tout court’ (causata dal disgusto creato dai politicanti) e la nostalgia per il dirigismo dell’uomo forte.

Resta comunque il fatto che tecnici e manager possono svolgere funzioni solo temporali di surroga in contingenze particolari, ma non devono sostituirsi stabilmente a chi ha la capacità di orientare il fare in funzione dell’essere, cioè di un preciso di disegno di progresso sociale, perché precisamente questo è il senso dell’agire politico e del governo della comunità.

Oltretutto, di politica e di politici veri si avverte particolarmente il bisogno proprio in frangenti come quello attuale. Siamo nel pieno gorgo di una crisi strutturale, che si risolve solo se si delinea un nuovo scenario, un nuovo paradigma. E per definire una via d’uscita occorre uno sforzo enorme, servirebbe la capacità dei padri costituenti che fra le macerie della guerra e della distruzione dello Stato italiano seppero definire il cammino della democrazia, indicarne il perimetro e le tappe per realizzarlo. Servirebbero uomini come alcuni di quelli che ne hanno accompagnato il percorso: un Berlinguer, un Dossetti, un Moro, un La Malfa, un Altero Spinelli, un La Pira, un Ingrao, un Langer… Servirebbero leader capaci di scrutare l’orizzonte, individuare la strada, mostrarci di nuovo le stelle.

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Sergio Gessi

Sergio Gessi (direttore responsabile), tentato dalla carriera in magistratura, ha optato per giornalismo e insegnamento (ora Etica della comunicazione a Unife): spara comunque giudizi, ma non sentenzia… A 7 anni già si industriava con la sua Olivetti, da allora non ha più smesso. Professionista dal ’93, ha scritto e diretto troppo: forse ha stancato, ma non è stanco! Ha fondato Ferraraitalia e Siti, quotidiano online dell’Associazione beni italiani patrimonio mondiale Unesco. Con incipiente senile nostalgia ricorda, fra gli altri, Ferrara & Ferrara, lo Spallino, Cambiare, l’Unità, il manifesto, Avvenimenti, la Nuova Venezia, la Cronaca di Verona, Portici, Econerre, Italia 7, Gambero Rosso, Luci della città e tutti i compagni di strada

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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