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Il lato peggiore degli “itagliani”, tra tante debolezze che non sono sufficientemente equilibrate da attitudini virtuose, consiste in un cicaleccio espresso da labbra strette che esprimono riprovazione se non sdegno oppure da uno scuotimento della testa da parte di signore con permanentina fresca. E’ ciò che sta accadendo nella vicenda delle due ragazze liberate e/o riscattate da bande terroristiche. L’esempio di alcune dichiarazioni tra Lega e Movimento 5Stelle era assai prevedibile ma su questo basterebbe controbattere con la lapidaria dichiarazione de “La Jena” sulla Stampa torinese: “Io il riscatto lo pagherei per tutti: perfino per Salvini” che mi sembra una risposta elegante e precisa.

Quello che mi preoccupa e mi rattrista, al di là dello scatenamento mediatico, è l’indifferenza o l’imbarazzo o la mancanza (apparente) d’interesse dell’altra metà del cielo. Sembra quasi che le donne, quelle le cui parole contano, si trovino in una specie di imbarazzato bivio tra solidarietà alle ragazze o condanna di una avventura considerata perlomeno azzardata. Tra le parole che colgono questa disparità di vedute, forte e chiara si alza la voce di Natalia Aspesi che con la leggerezza calviniana di cui è maestra affonda il coltello nella, talvolta, ipocrisia che avvolge il silenzio di tante donne, ponendo una serie di interrogativi: “sempre secondo quelle persone pericolosamente avare con gli altri, le rapite dovranno ripagare la loro salvezza per tutta una vita. Vuol dire che fossero loro al governo, le avrebbero lasciate soffrire e morire? Fossero anche state le loro sorelle, le loro figlie? Che il volontariato è un lusso per sciocchine? Che voler aiutare gli altri è un inutile hobby? Che se gli assassini di Parigi avessero chiesto per non uccidere, un riscatto, il governo francese avrebbe dovuto lasciar morire i giornalisti di Charlie Hebdo, la poliziotta, gli ebrei del negozio kosher?”

A che servono le migliaia di scarpette rosse che nell’entusiasmo per la difesa e la dignità delle donne si sono esposte in tutte le piazze d’Italia?. Il peggiore degli insulti: “se la sono cercata”! A cui Roberto Saviano può legittimamente rispondere: “Eppure Greta e Vanessa non erano alla loro prima missione umanitaria, non erano ragazzine sprovvedute, ma giovani donne con degli interessi e degli ideali. Qualche decennio fa alla loro età si era già madri.” Ecco allora che l’accusa più grave, quella della irresponsabilità viene minata al fondo. Prosegue Saviano spiegando che Greta e Vanessa partono per portare aiuto a popolazioni che non hanno nulla, in cui bambini muoiono per mancanza di tutto: “Ma al commentatore medio che ci siano centinaia di migliaia di persone a cui manca tutto non interessa”.
Non voglio commentare, ma ce ne sarebbe bisogno, l’avvertimento che Saviano inquietamente si pone. Se prima c’era reticenza a scrivere con parole ciò che ora si scrive impunemente sul web, questo limite ora è stato superato: che a Emma Bonino è giusto sia venuto il cancro, che queste ragazze sicuramente sono state abusate “ben gli sta!” vuol dire solo che il livello etico degli “itagliani” si è ulteriormente abbassato e che non hanno alcun rispetto per le parole. Si è perfino scritto che le ragazze non avevano nemmeno avvertito i genitori. Come se fosse necessario a vent’anni affrontare il giudizio di chi forse le avrebbe dissuase di seguire il loro sogno di rendersi utili. Un’utopia, certo, ma un’utopia generosa che le donne avrebbero dovuto compartecipare in pieno se è vero come è vero che anche gli stati che non pagano riscatto poi traversalmente lo fanno pagare alle agenzie di assicurazioni.

E le parole forti di Saviano sono del tutto condivisibili: “Mi vergogno delle reazioni di molti miei connazionali, delle loro parole, del loro livore, del loro odio. Se un Paese non è capace di stare accanto a due giovani donne volontarie, che hanno passato in condizioni di sequestro quasi sei mesi della loro vita, allora merita il buio in cui sta vivendo”.
Non voglio, inoltre, addentrarmi nelle discussioni politiche che siglano una mancanza interiore di generosità e di comprensione etica: dalle grasse parole di Salvini a quelle del governatore Luca Zaia, dagli imbarazzi di Gentiloni a quelle del sindaco di Padova Tosi, ai deliri grilleschi in odio al politico di turno.
Vorrei per una volta sola, (una!) riaprire la speranza all’utopia, dimostrare una comprensione verso una generosa illusione che è tra le corde meno usate non solo degli “itagliani” ma di tutto il popolo italiano.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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