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23 Settembre 2018

L’ultima guerra

Tempo di lettura: 5 minuti


di Francesco Minimo

“In conclusione (pausa) signori delegati (pausa prolungata) e amici carissimi (pausa infinita) devo confessarvi che abbiamo finito tutte le nostre cartucce”. Il rappresentante USA nonché Segretario del Super Consiglio di Sicurezza si lasciò sprofondare (non senza enfasi) nella sua ampia poltrona. Ci pensasse la Cina, con tutta la vomitosa retorica del suo fottuto Impero della Terra di Mezzo e i suoi due miliardi di musi gialli a trovare una soluzione. Ma Il delegato del Partito Paleocomunista Cinese, per la prima volta nella storia, non trovò di meglio che accodarsi allo scoramento statunitense. “Sarebbe a dire?” – ruggì il presidente onorario MacNamara, spalancando le sue minacciose orbite color ghiaccio secco. “Sarebbe a dire – rispose il cinese con un placido sorriso confuciano – che anche noi abbiamo finito le munizioni”.
Nel linguaggio figurato del Super Consiglio di Sicurezza dell’ONU, la gloriosa quanto fallimentare organizzazione che aveva appena celebrato in pompa magna i suoi primi cento anni di vita, le cartucce, ovvero le munizioni, stavano a rappresentare le sterminate risorse militari a disposizione quanto le più geniali trovate diplomatiche. Anche queste ultime, come le ormai obsolete armi convenzionali e i nuovissimi droni micronucleari, stavano infatti dimostrando la loro totale inefficacia a fronteggiare l’emergenza. A turno presero la parola gli altri membri del Consiglio, i vecchi membri come i nuovi eletti, ma solo per rispettare la ritualità assembleare, perché né la Grande Santissima Russia, né l’Unione Sudamericana, né l’ Impero delle Indie, né il Califfato Santo Riunito avevano uno straccio di idea da proporre. Mancava all’appello solo la Federazione Europea degli Stati Disuniti,  la vecchia e saggia Europa, ma erano più di vent’anni che gli Stati Federati d’Europa non riuscivano a mettersi d’accordo su un nome condiviso per rappresentarli nel Consiglio di Sicurezza.
Fu ancora il vecchio Arthur Benjamin W. McNamara a reagire. Aveva fatto il generale per una vita ed era andato un pensione da due lustri, ma come vuole il detto, da generale non ci si dimette mai. “Facciamo entrare gli esperti”, ordinò McNamara, ed esibendo uno dei suoi celebri sorrisi rassicuranti continuò: “vorrei ricordare a tutti i colleghi delegati due fatti incontrovertibili. Prima di tutto non ci dimentichiamo mai che noi siamo i buoni e loro i cattivi; e abbiamo sempre un grande vantaggio dalla nostra parte, perché noi” – qui la voce del vecchio generale aveva infranto la barriera del suono minacciando l’integrità della grande vetrata della Sala Ovale – “noi, carissimi amici, NOI SIAMO VIVI! “ .
Intanto, nel campo avverso fervevano i preparativi per la battaglia. A dire il vero fervevano anche troppo. Nello sconfinato salone del quartier generale la baraonda regnava sovrana. In piedi, appoggiati con le mani o con i gomiti a un lungo tavolo malmesso, a voce altissima e difficilmente intellegibile, si confrontavano una trentina di uomini e un paio di donne. Erano gli alti ufficiali dell’esercito di liberazione, regolarmente eletti con l’antico e resuscitato metodo dei soviet.
Nel punto mediano della lunga frattina di noce – per intenderci, nella classica posizione di Gesù nel Cenacolo di Leonardo – si scorgeva un po’ a fatica il comandante in capo. Vista la bassa statura, la trasandatezza dell’abito, la barba lunga e il viso a chiazze tipico dell’epatico, non si può dire che la sua figura dominasse la scena. Il generale di tutti i generali – riconoscibile solo per una benda rossa al braccio destro – non sembrava né Spartaco né un suo lontano parente, ma come non riconoscere al “Piccolo Corso” le qualità del grande stratega. Napoleone aveva già parlato, brevemente – che lui era uomo del fare, non delle inutili chiacchiere – e ora continuava a guardarsi intorno, unico a bocca serrata in quel tripudio inestricabile di voci. Sorrideva o forse sogghignava, sicuro di potersi prendere una definitiva rivincita sulla battaglia più nota dei libri di storia. Si scosse infine dal suo allucinato mutismo e prese a confabulare con chi gli stava più vicino, il secondo e il terzo ufficiale, gli unici a cui concedeva una qualche stima, il giovane Alessandro di Macedonia che lo affiancava a sinistra e pelato Caio Giulio Cesare alla sua destra.
Era un problema di alta strategia? Bisognava indovinare la tattica vincente? O si trattava solo di azzeccare al minuto secondo l’ora X? Per qualsiasi commentatore, anche se ferrato in storia militare, sarebbe stato difficile intenderlo. Già l’ho detto, lì nel salone c’era un gran caos, e l’unico dato evidente era che il Comitato Trapassati Riuniti sembrava lontanissimo dal trovare un accordo. In compenso la sala traboccava ottimismo. Le parole con cui il Generale Giap aveva concluso il suo intervento, “Abbiamo dalla nostra un vantaggio incolmabile: NOI SIAMO MORTI!”, erano state salutate dal pubblico con una ola da stadio. I morti, com’è noto, anche se presi a cannonate, non possono morire due volte. E c’era un ulteriore vantaggio, lo aveva ricordato il delegato Pitagora di Samo, sventolando un papiro zeppo di cifre davanti all’uditorio: “Non solo siamo morti, e tutti in buona salute, ma siamo anche molti di più di loro”. “E quanti siamo?”, aveva gridato uno sfacciato dal fondo della sala. E Pitagora: “Ho fatto e rifatto i conti; abbiamo superato quattro volte il numero dei nemici viventi. Volete sapere il numero preciso?”. Sicuro che lo volevano sapere. Gli ottomila delegati presenti (tutti regolarmente eletti e tutti regolarmente morti) aspettavano da anni, da secoli o qualcosa in più, quel numero liberatorio, che Pitagora scandì sillaba per sillaba e numero per numero: “Trentaduemiliardi-settecentotrentamilioni-trecentoventiduemila-novecentotrè.” Un bel numerone non c’è che dire. Un numero che cresceva inesorabilmente di minuto in minuto. E i nemici, voglio dire, i vivi? Quelli avevano smesso di crescere da almeno vent’anni.
Queste le forze in campo come si presentavano alla vigilia della Grande Battaglia. Come andò a finire è scritto su tutti i libri, tanto da rendere superflua una cronaca dettagliata degli eventi. Basterà riportare qualche scarna notizia e qualche cifra. Fu una guerra lampo, durò una sola notte. I vivi morirono tutti, come i Trecento delle Termopili, compreso il valoroso MacNamara decisissimo a vendere cara la pelle. Ma la pelle gliela fecero eccome, a lui e a tutti gli altri. Nessun morto invece tra le file dei morti. L’arma letale? La escogitò il solito Odisseo: non c’era bisogno di incrociare le spade, sarebbe bastata un po’ di messa in scena, far leva sulla paura. Paura dei fantasmi, paura del buio, paura dei morti, paura della morte. Fu la paura il vero cavallo di Troia, il tallone di Achille, l’uovo di Colombo, insomma ci siamo capiti. Alla paura non scampò nessuno, neppure gli atei, gli agnostici, gli ufficiali di carriera, i marines e le teste di cuoio.
Alla fine, e fu una scena davvero commovente, i morti vincitori e i vivi sconfitti – diventati all’istante ex vivi e morti novelli – si abbracciarono riconoscendosi fratelli. Il pianeta Terra trovava finalmente un po’ di pace eterna.

(Francesco Minimo – tutti i diritti riservati)
Anteprima in esclusiva per Ferraraitalia del racconto tratto da ‘Noi fantasmi’ di prossima uscita.

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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