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La consueta e ormai consolidata riflessione sul concetto di maturità viene di nuovo stimolata dalla presentazione dell’autore alla ristampa ampliata del suo importante saggio: Francesco M. Cataluccio, Immaturità. La malattia del nostro tempo, Einaudi, 2014, apparso sul Domenicale del Sole 24 ore del 30 marzo. Chi abbia letto in precedenza il libro di Cataluccio sa che tra due figure di riferimento tratte da due libri che hanno aperto e concluso il Novecento si snoda il percorso della scelta simbolica di entrare o meno nel mondo degli adulti e nella assunzione di responsabilità. Nel 1904 Peter Pan e nel decennio 1997-2007 la saga di Harry Potter. Due figure, commenta Cataluccio, che esprimono con la verità propria alle invenzioni poetiche i due atteggiamenti controversi del venire al mondo nella società adulta. Peter Pan rifiuta quella responsabilità, Harry Potter l’accetta. “Harry Potter diventa adulto e rinuncia alla spensieratezza, che è ebrezza del presente, oblio del passato e disinteresse nei confronti del futuro.”

Riferita alla contemporaneità socio-politica, ma prima di tutto soggettiva, sembra evidente che la spinta a rovesciare le posizioni e attraverso il più noto ma non unico principio della “rottamazione” i giovani intendano e vogliano pervicacemente sostituirsi ai “maturi”, ai vecchi. Da qui l’analisi del concetto di vecchiaia, una lotta per la vecchiaia, commenta Cataluccio, a cui tende tutto il nostro percorso di vita. Ma ciò che qui interessa sottolineare è l’atteggiamento che in Italia si ha del problema giovani/vecchi. Cataluccio dimostra come l’Italia sia uno dei Paesi dove la vecchiaia è trattata peggio e, appoggiandosi alle tesi del presidente della Società di Psichiatria, Claudio Mencacci, afferma che l’Italia è il luogo dove la convivenza sociale è contagiata da “una venatura paranoica” per cui, “pur essendo convinto della giustezza e della necessità di “rottamare” quella parte della vecchia classe politica che ha commesso gravi errori e talvolta poco onesti […] mi pare che ogni battaglia mascherata da problema generazionale (vecchio contro nuovo, giovani contro anziani) sia molto limitante e possa essere persino pericolosa.” Così se lo scontro generazionale nella politica può essere ammesso e addirittura sollecitato non lo è né lo deve essere per altre professioni o scelte artistiche. L’esperienza giovanilistica sperimentata nel secolo da cui proveniamo “ci ha mostrato però chiaramente che questa cultura giovanilistica e immatura e la pratica su di essa basata, è in realtà assai reazionaria e foriera di disastri: la più grande esaltazione del mito della gioventù è stata fatta dai regimi totalitari.”

Al di là della estremizzazione di una tesi ampiamente condivisibile (almeno per chi scrive al di là della sua appartenenza alla generazione vecchia) mi pare che il discorso di Cataluccio sia degno di una riflessione né superficiale né banale proprio per le implicazioni culturali che essa solleva. Prima di tutto l’antagonismo vecchi/giovani non è mai foriero di una vivere civile né le due generazioni hanno in sé il rimedio assoluto. Non è che essere giovani sia meglio che essere vecchi né che essere uomini sia meglio che essere donne. La storia ha dimostrato che solo l’interazione tra queste due forme opposte ha prodotto uno scatto positivo nel tormentato percorso della democrazia o della società. Ma l’accentuazione del problema generazionale viene spinto dal sentire generalizzato e da ciò che è forse il principio primo della società moderna: l’opinione dell’uomo comune che, se non viene adeguatamente e riflessivamente tenuto in considerazione, sfocia nel populismo e nel plebiscitarismo più sconsiderato.

Andrei oltre le tesi di Cataluccio e mi appellerei al fatto che anche la rottamazione politica al di là delle innegabili colpe di chi ha scelto questa strada e ha dantescamente percorso non la “diritta via ma la “selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinnova la paura” non può essere lineare o a-critica. Lo si vede oggi nella tormentata vicenda del cambiamento proposto e impugnato dal “giovane” Renzi e anche dalle risposte che suscita. Di questo abbiamo discusso con Fiorenzo Baratelli che esporrà il suo punto di vista su questo giornale; ma quello che mi pare assolutamente condivisibile nei nostri punti di vista è che l’intellettuale di sinistra (una figura che molto significa o, al contrario, nulla significa) ha avuto il torto di non occuparsi o di poco occuparsi dell’ uomo comune, delle sue reazioni e dei suoi convincimenti. Tuttavia se questo è innegabile; innegabile cioè come il concetto di “popolo” inteso in modo astratto (o inteso nella vecchia identità di “compagno”) non sia stato sostituito da quello più realistico dell’uomo comune, lasciato quindi in balia dei populismi che ovviamente tendono a livellare le capacità attraverso la scelta del nuovo e del giovane contro quel vecchio che non ha saputo realizzare le speranze e le idee del common sense.

Resta un punto dove però una pericolosa deriva non può varcare un limite che forse il ventennio berlusconiano ha promosso come adesione o promozione all’immaturità di tanti italiani e nello specifico una sollecitazione a fare dei giovani, dei ragazzi, dei bambini dei piccoli uomini o piccole donne. Ho visto con sdegno e incredulità una trasmissione di grande successo: “Ti lascio una canzone” dove autorevoli personaggi di teatro ( compreso un mio mito, la celebre cantante lirica Cecilia Gasdia) promuovevano o bocciavano in una gara canora le voci di piccoli e giovani cantanti. Nulla di male se questo fosse avvenuto nei limiti di una gara che come tale premia la qualità dell’interpretazione. Ciò che invece rendeva mostruosa la performance erano le mosse, i costumi, le inflessioni di quei giovani che mimavano pose, atteggiamenti, maniere del mondo adulto. Compreso i balletti di bambine che a mio parere sembravano avere appreso le mosse da qualche burlesque. E ancor più impressionante il viso incantato, le lacrime, il delirio di applausi che scuotevano i genitori e i fans come se quei piccoli diventati mostri (nel significato latino di monstrum, degno di essere esibito e seguito) potessero soddisfare le loro esigenza di uomini e donne comuni. Su questa violazione del diritto e dovere ad una infanzia cioè alla decisione di saltare le tappe della crescita per approdare alla maturità mi sembra stia il pericolo vero di chi, giovane, brama e desidera giungere alla ripeness senza mai arrivarci. Proprio perché rifiuta la necessità e il dovere di misurarsi con un’altra generazione.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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