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“Lì dentro ci sono tutti i miei vent’anni” : Stefano LinFante racconta il suo nuovo EP. Autore di quello che è stato considerato il terzo miglior disco italiano del 2014 dalla rivista Indie Italy, LinFante torna alla carica con “Piccolo e Malato”: disco dalle sonorità graffianti, scarne e sincere, “Piccolo e Malato” oltre a naturale proseguimento dell’album “Non Mi Piace Niente” ne è anche una valida conferma dal punto di vista artistico.

Sappiamo vita, morte e miracoli di tantissimi musicisti mainstream; più raro è invece potere aprire una finestra sulla vita dei tanti artisti underground, spesso altrettanto validi e interessanti, che popolano lo scenario musicale italiano. Qualche parola su LinFante.
Sono nato a Cremona, per puro caso, quando mio padre trovò lavoro in una scuola come insegnate di matematica e decise di stabilirsi in quella città con mia madre. Nacquero prima i miei due fratelli, ed infine io. Ho sempre avvertito forte la mancanza di radici, che da sempre in me si è fatta arte. Sono cresciuto ascoltando Beatles, Dalla e Battisti nei lunghi viaggi in macchina che portavano me e la mia famiglia in Belgio o in Puglia, i luoghi dove si trovavano i miei parenti lontani. Da adolescente scoprii il grunge e da lì cambiò tutto. Avevo capito che la mia strada era la musica, attraverso cui potevo urlare in faccia a tutti il mio disagio. Devo dire che non sono cambiato molto.

Ascoltando le tracce audio si ha l’impressione che queste siano collegate da un “filo rosso”, con al centro le esperienze di vita personali. Può trattarsi di un “Concept EP”?
Sì, in qualche modo lo è. Lo stato d’animo con cui ho composto queste canzoni, anche se non provocato dalla medesima situazione, fa sì che abbiano un sapore simile. Di certo anche perché sono state scritte negli stessi anni, forse negli stessi mesi. Il filo rosso potrebbe essere l’amaro in bocca per la fine di una storia d’amore, con tutte le conseguenze che essa genera: il sentirsi abbandonati, inadeguati, sbagliati.

Si tratta comunque di brani non di recente composizione, che momento della tua vita rappresentano e cosa ti ha portato a ripercorrere quei sentieri?
Rappresentano l’affacciarsi alla maturità, quel momento della vita in cui te ne sei andato di casa e ci ritorni solo per salutare ogni tanto i tuoi vecchi amici. Storie d’amore in bilico tra vecchia e nuova vita. Delusioni che ti soffocano e ti fanno dire che non starai mai più bene. Sono molto affezionato a queste canzoni, lì dentro ci sono tutti i miei vent’anni. Per questo ho deciso di registrarle, chiamando con me in studio gli amici e musicisti con cui le ho sempre suonate dal vivo, in cantina, in sala prove: Le Jacobin de La Scapigliatura, col quale ho un progetto musicale che si chiama “Il Re dei Boschi”, e Andrea e Muke dei Sydrojé, la mia band.

In tutti e 5 i pezzi appare costante la presenza della figura femminile, causa, ma spesso anche soluzione, dei dolori d’animo dell’Autore. Vedi la donna come musa ispiratrice o come causa di innumerevoli tempeste sentimentali?
Entrambe le cose. La figura femminile ha sempre rappresentato per me motivo di turbamento, nel bene e nel male. Grandi passioni e grandi delusioni, fino alla depressione.

Cosa ti ha portato a trasferirti per alcuni anni in Spagna e cosa ti ha spinto a ritornare? L’esperienza spagnola ha condizionato la tua vita artistica?
La scusa era lo studio, la realtà la voglia di nuove esperienze. I periodi più belli della mia vita li ho trascorsi vivendo a Barcellona e a Madrid. A Barcellona ho trovato inaspettatamente spazio per la mia musica, riuscendo a confrontarmi con tanti musicisti e nuovi pubblici. Girando la Spagna con la mia chitarra sono cresciuto molto. Sono tornato in Italia solo perché volevo finire l’università. Poi ho trovato un lavoro che mi permette di stare a Roma, città che amo. Ma chiaramente non escludo la possibilità di andarmene di nuovo. Certo, scrivo e canto in italiano, ci tengo molto, e soltanto in Italia posso pretendere che questo aspetto venga valorizzato. Ma non è detto che il mio futuro abbia al centro la musica. Ho molte passioni e aspirazioni.

L’arrangiamento delle canzoni è semplice ed efficace, con una chitarra acustica preponderante, come nascono le canzoni di LinFante?
Nascono tutte sulle corde della mia chitarra. A casa mia, sul divano, sul letto, a partire da una parola, un’idea, un sentimento. Suono fino a che la combinazione degli accordi non mi convince e non inizia a venirmi spontanea una melodia che mi piace. Il testo, di solito, lo scrivo alla fine, anche se alcune parole mi si fissano in testa fin dall’inizio. Siamo in una fase di grande cambiamento per quanto riguarda il mercato musicale: se da un lato siamo invasi dalla musica liquida, salvata in grandissime quantità in memorie miniaturizzate o addirittura on line su piattaforme come Spotify, dall’altro lato, soprattutto da parte dei giovani, sembra esserci una disaffezione per quanto riguarda la musica dal vivo, in particolare per quella non di massa.

Hai notato questa cosa anche nei tuoi concerti? Pensi che tutta questa disponibilità di musica sia un bene o sia un male?
È effettivamente difficile trovare giovani curiosi che vanno ad ascoltarsi band o cantautori sconosciuti nei piccoli locali, e quando ne incontro qualcuno mi fa sempre molto piacere. Questa grande disponibilità di musica è sicuramente un bene per l’ascoltatore, un po’ meno per chi suona, che trova più difficoltà a emergere e a sopravvivere. Ad ogni modo, quello che conta per me è che sia la musica a vincere, non il mercato.

Vorrei infine sapere quali sono i tuoi progetti futuri e se avremo la possibilità di ascoltarti dalle nostre parti.
Ho molte idee per la testa, a incominciare da un nuovo disco, questa volta di canzoni scritte negli ultimi mesi e che rappresentano come mi sento ora, alla soglia dei trent’anni. Mi piacerebbe tantissimo suonare dalle vostre parti… anzi se hai qualche posto da consigliarmi…

Se capita l’occasione molto volentieri! Per ora ti ringrazio molto per la chiacchierata e ti faccio un in bocca al lupo per il futuro! A presto!
Grazie a te, è stato un vero piacere! Ci vediamo!

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Fulvio Gandini


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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