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Nel vortice di polemiche al calor bianco che accompagnano la discussione della legge elettorale alla Camera si ha spesso come l’impressione che molti dimentichino alcuni dati di fatto importanti.
Il primo è una semplice constatazione: in Italia una reale “democrazia dell’alternanza”, cioè una democrazia di tipo occidentale che funziona, non si è mai vista. Per tutta la prima repubblica, in un contesto elettorale di tipo sostanzialmente proporzionale, ha infatti prevalso un regime di democrazia bloccata, che per ragioni di politica estera escludeva a priori la possibilità per i rappresentanti di circa un terzo dell’elettorato di poter partecipare al governo del Paese e che rendeva di conseguenza praticamente obbligatorie coalizioni fra i partiti restanti. Tutte le combinazioni possibili sono state esplorate più volte: tri quadri e penta partiti, appoggi esterni, desistenze, non sfiducie: in una gara grottesca alla creazione di neologismi improbabili. In questa fase l’Italia era già famosa nel resto del mondo per la sua instabilità politica e per i suoi governi lampo, che potevano anche essere “di transizione” e persino “balneari”.
Nella seconda repubblica, nella quale sono state applicate due diverse leggi elettorali (il “mattarellum” e la porcata calderoliana), entrambe di ispirazione maggioritaria, abbiamo visto sia a destra che, soprattutto, a sinistra l’aggregarsi di coalizioni molto composite e poco coese. Al punto che la destra, che pure ha ottenuto dalle urne maggioranze parlamentari imponenti, non è mai riuscita a portare a termine nessuna delle “grandi riforme” che aveva sbandierato durante le campagne elettorali; colpa certamente del populismo che le caratterizzava, ma anche dell’impossibilità di portare a sintesi progetti che nel loro iter dovevano piegarsi alle esigenze delle mille lobby che infestano il Paese.
Detto in altri termini, l’Italia dal dopoguerra ad oggi non è mai stato un Paese “normale” in cui chi governa, grazie alla maggioranza ottenuta dalle urne, realizza il proprio programma elettorale e chi è all’opposizione esercita il ruolo di vigilanza che la Costituzione gli assegna e si prepara, se ci riesce, a diventare maggioranza nel Paese alla tornata elettorale successiva.
Quello a cui abbiamo invece assistito è stato il proliferare di meccanismi consociativi del tutto opachi, sia interni alle coalizioni di governo che trasversali rispetto ad esse, ed all’emergere di centri di potere, anomali in quanto del tutto al di fuori dal quadro istituzionale ed anch’essi spesso trasversali, molto più durevoli delle labili maggioranze di governo, in un contesto in cui in alcune fasi è stato molto difficile capire chi realmente stesse governando ed in base a quale mandato. E’ appena il caso di ricordare che il contesto di corruzione ed illegalità diffuse che opprimono l’Italia è strettamente legato alla mancanza di un meccanismo di alternanza democratica efficace. Gli ultimi 5 anni, poi, hanno visto il trionfo esplicito della trasversalità più totale e, per certi versi, spudorata.
Abbiamo cioè, detto in sintesi, un passato che dal punto di vista della pratica della democrazia è del tutto indifendibile e che occorre superare al più presto. Chiunque vagheggi, da questo punto di vista, una qualsiasi trascorsa età dell’oro o è in malafede o ha evidenti problemi di memoria.
Una seconda questione, che anima anch’essa il dibattito, è quella relativa alle preferenze. Anche qui la memoria dovrebbe venire in soccorso a molti e la sua rievocazione fare riflettere chi non c’era.
Nel sistema proporzionale in vigore alla Camera durante tutta la prima repubblica c’erano le preferenze. Nella sinistra di allora si riteneva abbastanza unanimemente che fossero un elemento fortemente negativo da contrastare, sia per motivi, per così dire, interni, sia per altri di carattere più generale. Rispetto ai primi basta ricordare che in quel periodo era tassativamente vietato ai singoli candidati fare campagne elettorali autonome utilizzando proprie risorse economiche; tutta l’attività di propaganda elettorale era invece interamente svolta dai partiti (il PCI, innanzitutto, ma anche le diverse e molteplici formazioni alla sua sinistra), i quali decidevano a priori chi dovesse essere eletto e davano a tale proposito ai propri militanti indicazioni molto precise sulle preferenze da indicare, in modo che si realizzasse il risultato voluto. In quanto ai secondi, era sotto gli occhi di tutti il “mercato delle preferenze” che si svolgeva negli altri partiti, che consentiva spesso l’elezioni in Parlamento di personaggi legati a specifici gruppi di potere, anche di tipo malavitoso.
Per questi motivi quando nel 1991 si votò un referendum per abolire le preferenze elettorali alla Camera la sinistra si schierò unanimemente per il voto a favore.
La legge elettorale attualmente in discussione prevede un sistema misto, che fa eleggere prioritariamente in ogni collegio i capilista, mentre le preferenze servono per determinare gli altri eventuali eletti di ogni lista. Nella sostanza i partiti minori, che al massimo possono pensare di eleggere un solo rappresentante per collegio, vengono tagliati fuori dal meccanismo delle preferenze. Il partito di maggioranza relativa, invece, che in virtù del premio ottiene il 55% dei seggi, cioè 346 parlamentari, dato che i collegi sono circa 120, ne elegge circa due terzi con le preferenze (in realtà potrebbero essere di più a seconda della scelta o meno dei capilista di presentarsi in più collegi, con un massimo previsto dalla legge di dieci). Se si tiene conto che da sempre i partiti maggiori portano in Parlamento un numero consistente di candidati “nominati”, ad esempio tecnici esperti in diversi settori, ma pressoché sconosciuti all’elettorato, e anche, inutile negarlo, persone in qualche modo da “premiare”, la proporzione definita dalla legge appare essere tutt’altro che scandalosa e, soprattutto, garantisce che la grande maggioranza degli eletti del partito che avrà il governo del Paese sia stata eletta direttamente dai cittadini.
Il problema vero, del quale stranamente si discute molto poco, è però un altro e non tanto le preferenze quanto piuttosto la formazione delle liste di candidati. Vale a dire chi decide chi deve farne parte ed in base a quali criteri. Fra l’altro tale questione è determinante per i sistemi a collegi uninominali, dove ogni partito presenta un unico candidato per collegio e che molti pensano essere i migliori sistemi elettorali possibili. Naturalmente, indipendentemente dalla legge in vigore, nulla vieta ad un partito di definire le proprie liste, capilista inclusi, sulla base del risultato di elezioni primarie o, comunque, strumenti che garantiscano l’espressione democratica del consenso della loro base di militanti ed elettori. Molti vorrebbero che questo meccanismo venisse imposto e regolato per legge, cosa a mio parere non priva di senso, ma che ha come necessario presupposto la piena attuazione dell’art. 49 della Costituzione (“Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.”), in base al quale dovrebbero essere definite regole comuni sulla struttura organizzativa e la rappresentanza democratica nei diversi partiti.
La terza ed ultima questione riguarda la natura del premio di maggioranza, che la legge in discussione assegna al partito più votato, mentre c’è chi vorrebbe venisse attribuito alla coalizione di cui, eventualmente, facesse parte. E’ indubbiamente una scelta forte, volta principalmente a ridurre il potere di condizionamento che i piccoli partiti hanno sempre avuto sulle coalizioni e le maggioranze di governo, che ha indubbiamente anche un effetto significativo nel favorire la tendenziale scomparsa delle formazioni politiche, molto spesso negli ultimi anni create ad hoc alla vigilia delle elezioni ed assai poco rappresentative, che, godendo della “protezione” della coalizione di cui facevano parte, hanno garantito seggi a rappresentanti di interessi specifici. D’altra parte l’abbassamento al 3% della soglia per potere eleggere propri rappresentanti in Parlamento garantisce un adeguato “diritto di tribuna” a tutte le forze realmente rappresentative.

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Raffaele Mosca


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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