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Paola Pocaterra nel suo studio

“Non si vede bene che con il cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi”, scriveva Antoine de Saint-Exupéry. Parole che mi ritornano in mente, in tutta la loro intensità, dopo aver incontrato Paola Pocaterra, fisioterapista, insegnante di massaggio infantile e teacher di Hug your baby, un programma innovativo per crescere bambini “in gamba e felici”.
Paola è una ragazza non vedente, che ha sviluppato una particolare e straordinaria sensibilità tattile e manipolativa. Pelle a pelle, Paola sa percepire con il tatto ciò che altri potrebbero cogliere con lo sguardo: riesce a entrare in completa sintonia con le persone che cura perché la mancanza della vista ha acuito la capacità empatica e di comprensione dell’altro.
Dopo anni di studio e una laurea con lode all’Università di Firenze, Paola ha lavorato sette anni in Trentino, nel C.T.O. (centro traumatologico ortopedico) e all’Asl di Trento, poi è ritornata a Ferrara, la città dove è nata e cresciuta, dove ha frequentato il Liceo delle scienze umane Carducci e dove ha aperto un’attività in via Poledrelli.
Trentun anni, capelli biondi, viso acqua e sapone, Paola ci accoglie con garbo e con un sorriso nel suo studio. Appena varcata la soglia ci raggiunge una cucciola di golden retriever affettuosissima e scodinzolante.
Paola unisce alla passione per il suo lavoro una profonda delicatezza e una sana determinazione, che l’hanno aiutata sempre a superare sia le ‘barriere architettoniche’ sia le ‘barriere mentali’.

Che cosa rappresenta per lei la fisioterapia?
La fisioterapia – e in generale il contatto – per me rappresenta un’occasione per aiutare il paziente a prendere coscienza di sé, per insegnargli ad ascoltarsi, a ridurre le proprie tensioni, che poi tante volte non sono altro che emozioni da elaborare. Penso che il contatto, se applicato nel modo giusto, possa essere un modo per far sentire il paziente accolto e che permetta di porre l’attenzione su parti del corpo che per qualche ragione abbiamo trascurato o dimenticato. Ho sempre considerato il mio lavoro un piacere, perché non è solo una riproposizione di esercizi o un’esposizione di dati scientifici, ma è un lavoro di relazione, che mi dà soddisfazione, gratificazione e che mi permette di crescere come persona.

Come ha scoperto questo suo talento, questa attitudine?
Diventare fisioterapista è un sogno che ho avuto fin da bambina. Tutto è iniziato quando papà è stato operato ad un polso per una patologia rara; ricordo ancora il gesso che gli era stato applicato e il fatto che io volevo massaggiarlo per farlo guarire più in fretta. Così fin da bimba alla domanda “Che cosa vuoi fare da grande?”, rispondevo decisa “la fisioterapista”. Poi, crescendo, ho iniziato a capire che il percorso non era così semplice, c’erano test di ingresso da superare e tanti esami.
Ma per fortuna, come la mia mamma, sono molto determinata ed è difficile che io abbandoni un obiettivo se ne sono realmente convinta. Così i primi tirocini e gli anni di lavoro in Trentino mi hanno fatto scoprire che essere fisioterapista significa prendersi cura dell’altro e in questo mi sono sempre sentita a mio agio.

Che cosa le piace del suo lavoro?
Vedere i progressi di un paziente è sicuramente qualcosa di gratificante, ma ciò che mi rende più felice nel mio lavoro è essere ricordata per aver lasciato qualcosa nelle persone: non solo una serie di esercizi da riprodurre, ma qualcosa su cui riflettere e perché no, magari anche un po’ di forza e coraggio. È una cosa che mi hanno confidato alcuni miei pazienti e che mi ha fatto piacere.

Ho letto in un’intervista a una sua collega non vedente questa affermazione: “Noi professionisti con disabilità visiva, abbiamo saputo accettare e mettere a disposizione la nostra condizione di disabilità, a rinforzo degli stati d’animo altrui. Chi meglio di una persona che è portatrice di una disabilità può capire un’altra persona, usando non solo il proprio esempio concreto, ma le proprie abilità a supporto del migliore dei recuperi possibile? (…) La stima e la fiducia poi vengono spontaneamente perché non si può essere aiutati senza aiutare”. Condivide queste osservazioni?
Condivido le riflessioni della collega: credo che chi ha vissuto o vive una disabilità sa cosa significa la sofferenza, il dolore, ma sa anche cosa significa essere motivati, aver voglia di dimostrare, di fare anche esperienze che agli occhi dei ‘normodotati’ possono sembrare incredibili. Aggiungo una considerazione: per me la normalità non esiste, siamo tutti un po’ disabili nella vita, abbiamo tutti delle difficoltà, delle debolezze, ma abbiamo tutti dei talenti, dobbiamo solo trovare il modo per esprimerli e a volte per fare questo servono le persone giuste, nel momento giusto e nel luogo giusto. Ricordiamoci però che tutti prima o poi abbiamo bisogno di un aiuto, quindi meglio imparare prima possibile a saper aiutare e a saper accettare di dover essere aiutati.

Qual è la sua specializzazione?
Per quanto riguarda gli adulti, mi occupo prevalentemente di patologie ortopediche e oncologiche. Sono specializzata in terapia manuale, disciplina utile per il trattamento di disfunzioni muscoloscheletriche acute e croniche, che valuta il paziente nella sua globalità.
Pratico anche il trattamento cranio-sacrale e delle disfunzioni temporomandibolari e il
linfodrenaggio, ovvero il massaggio praticato in presenza di edemi primari (dovuti a patologie del sistema linfatico) o secondari (conseguenti a traumi, interventi chirurgici, asportazione di linfonodi). Nei pazienti oncologici ho sempre trovato la grande forza di combattere, che ha aiutato anche me.

E per i bambini?
Nel campo dell’infanzia, propongo corsi individuali o di gruppo di massaggio infantile, secondo i principi dell’Aimi (Associazione italiana massaggio infantile) per bimbi tra 0 e 12 mesi. Si tratta di una sequenza di massaggio che insegno ai genitori con l’obiettivo di regolarizzare il ritmo sonno-veglia, rilassare il piccolo, affrontare le coliche addominali, rafforzare la relazione genitore-bambino.

Lei è tra le prime a proporre i corsi Hug Your Baby in Italia. Perché questo programma è significativo?
Nei corsi Hug Your Baby affronto con i genitori temi quali il pianto, il sonno, l’allattamento, il gioco del neonato; sono incontri pensati per offrire un supporto ai genitori, osservando insieme gli stati comportamentali, i bisogni e i segnali di sovrastimolazione del piccolo. Nei corsi vengono illustrate le tappe di sviluppo del bambino e le strategie per aiutarlo a calmarsi, a mangiare e a dormire bene. Gli incontri pre-parto possono essere svolti in gruppo, mentre quelli post-parto sono rivolti ad ogni singola famiglia.

Quali sono i suoi progetti?
Ho frequentato un master di primo livello in attività e terapie assistite dall’animale – e in particolare dal cane – e sono alla ricerca di altre figure professionali con le quali collaborare (logopedisti, psicologi, educatori). Mi piacerebbe elaborare progetti di pet therapy con finalità diverse quali educazione e sensibilizzazione nelle scuole, sviluppo delle capacità empatiche, recupero di parametri quali il cammino o la manipolazione. In quest’ottica negli scorsi anni ho proposto assieme ad un’associazione in Trentino un programma educativo in una scuola in cui vi era un alto tasso di bullismo e ho svolto un tirocinio volontario presso una Asl di Firenze con bimbi affetti da paralisi cerebrale infantile, durante il quale il mio cane guida è diventato un ‘motivatore’, un coadiutore delle attività proposte.

Come si chiama il suo cane guida?
Il mio nuovo cane guida si chiama Pesca, è un golden retriever di 2 anni ed è diventata la sorellina del mio precedente cane, Gaia, che ora ha quasi 13 anni. Pesca vive con noi da 3 mesi, è ancora un po’ cucciolona, ma sarà la perfetta continuazione di Gaia. Il cane guida è un vero e proprio componente della famiglia, rappresenta gli occhi di chi non vede, per questo dico che chi non accetta il mio cane non accetta me. Gaia prima, e Pesca poi, sono sempre state al lavoro con me, anche se si trattava di ambienti sanitari; per fortuna la legge tutela il non vedente e il suo cane, ma ancora in Italia c’è bisogno di molta sensibilizzazione e informazione. Il mio cane guida è il mio ‘mezzo di trasporto’, la mia sicurezza, grazie a lei non mi sento mai sola. Il rapporto che si crea con un cane guida è di simbiosi: Pesca imparerà come aveva fatto Gaia a capire i miei stati d’animo, a leggere i miei movimenti, a proteggermi lungo i pericoli della strada.

Ha un sogno nel cassetto?
Beh, a volte i sogni è giusto che rimangano segreti! Posso dire che una cosa che mi piacerebbe fare sarebbe associare fisioterapia, pet therapy e perché no… anche la musica, visto che da qualche mese ho iniziato a seguire lezioni di violino, uno strumento che mi emoziona e che mi arriva al cuore. Credo che sia l’essere fisioterapista, sia lavorare con il proprio animale, sia suonare uno strumento musicale, richiedano tanta sensibilità e forse anch’io… ho qualcosa da dare!

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Eleonora Rossi


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

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