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Due gesti carichi di significato, come spesso succede quando si parla di Chiesa cattolica: la chiusura della porta santa di San Pietro, a conclusione dell’anno santo aperto da Papa Bergoglio l’8 dicembre 2015, e la firma della lettera apostolica Misericordia et misera (del 21 novembre).

Veniamo subito al punto maggiormente annotato sui taccuini di esperti e osservatori: l’assoluzione per il peccato di aborto.
E’ il paragrafo 12 della lettera di Francesco e l’impressione è di essere di fronte a un ennesimo tornante del magistero di questo pontefice. A scanso di equivoci, l’aborto non scompare dal panorama dei peccati della Chiesa. E’ egli stesso a “ribadire con tutte le mie forze che l’aborto è un grave peccato, perché pone fine a una vita innocente”.
La novità sta nel rendere permanente ciò che all’inizio dell’anno giubilare era stato eccezionalmente riconosciuto ai sacerdoti di concedere l’assoluzione, finora riservato solo al vescovo.
Le conseguenze le ha spiegate il responsabile dell’anno santo della misericordia, mons. Rino Fisichella. Significa che le parole di Papa Francesco sono destinate a cambiare il Codice di diritto canonico, nel senso che occorrerà riscrivere il canone 1398 perché viene meno la scomunica latae sententiae in cui incorre chi procura l’aborto, cioè senza bisogno di pronunciarla formalmente per ogni singolo caso. Scomunica che nel codice ecclesiastico è la pena più severa, perché toglie la comunione ecclesiale, impedisce di ricevere i sacramenti e in particolare l’eucaristia.
A rendere maggiormente significativo il passo compiuto è il contesto ecclesiale nel quale queste parole incidono. “Il tema dell’aborto – dice lo storico Agostino Giovagnoli – è stato una bandiera anche di battaglie politiche, sostenute dai cattolici e non cattolici”.

La direzione appare quella di chi non ha interesse a mettersi sul piano della battaglia ideologica o politica. Il vero terreno sul quale porre l’annuncio della Chiesa non è più quello delle alleanze fra trono e altare, di cercare la sponda del Principe, secondo una tradizione secolare, per ottenere spazi, strumenti giuridici e cornici normative per costruire (o ricostruire) l’edificio della cristianità. Ideale a lungo perseguito che non ha scongiurato la secolarizzazione e che ha prestato il fianco a imbarazzanti strumentalizzazioni, fra atei devoti e teocon. Una strada cristallizzata nella strenua difesa del baluardo dei principi non negoziabili.
Nella cifra di Bergoglio è sempre più chiaro che il vero terreno d’incontro con il divino non sono le strutture, ma la coscienza dell’uomo.
Da qui l’appello rivolto innanzitutto alla Chiesa di andare oltre il dettato della legge. Se l’aborto rimane in tutto e per tutto un peccato grave, d’altro canto non esistono peccati imperdonabili, perché ben più grande è la misericordia, cioè la categoria chiave di volta di questo pontificato.
Lo stesso titolo della sua lettera apostolica al termine del giubileo, Misericordia et misera, è la citazione esplicita dell’incontro evangelico di Cristo con l’adultera (non un peccato a caso), cioè l’incontro tra la misera e la misericordia in persona, che non la guarda con la tavola della legge in mano, ma che al termine la accoglie nel suo perdono vivificante.
E se hanno colpito di più le parole del Papa sull’aborto, non sono da meno quelle che invitano la Chiesa a dedicare maggiore ascolto alla Bibbia e cioè a quell’incontro con la misericordia in persona che deve diventare la postura di una Chiesa che sa farsi a sua volta sacramento di misericordia nel mondo, oltre il ligio accostarsi ai sette sacramenti canonici.
Parole che confluiscono significativamente nell’invito a celebrare la Giornata mondiale dei poveri nella festività liturgica di Cristo Re. Come a dire che la vera potenza e regalità di Cristo, e quindi della Chiesa, si celebra non nei vessilli issati di qualsiasi Invincibile Armada o nella riconquista del Santo Sepolcro, ma in ciò che in teologia si chiama l’universale (cioè di tutti) chiamata divina alla predestinazione in Cristo, a partire dai più deboli e indifesi.

Un appello, quindi, a scardinare divisioni fra il dentro e il fuori, fra i nostri e i loro, fra i difensori della verità e i condannati alle fiamme dell’inferno. Invito sempre più esplicito ad andare oltre i due principali ordini di critica a Papa Bergoglio: da una parte chi lo accusa di abbandonare la dottrina e la visione gerarchica della Chiesa, dall’altra chi gli rimprovera di non cambiare le strutture.
Andare oltre per Francesco significa coinvolgere da dentro tutto il popolo di Dio (la teologia del popolo di Dio come declinazione tutta argentina della teologia della liberazione), in un’operazione di rinnovamento nel nome della misericordia.
Starebbe qui, anche, il senso della mano tesa di Bergoglio nella lettera apostolica per riconoscere la validità dell’assoluzione dei fedeli dai sacerdoti lefebvriani.
Passi di un pontefice che dalla sua elezione, il 2013, diventano una vera e propria direzione di marcia: la sua prima uscita a Lampedusa (8 luglio 2013), il viaggio in America prima a Cuba e poi negli Usa, l’apertura della porta santa a Bangui prima di San Pietro per inaugurare l’anno giubilare, il viaggio a Lesbo…
Il teologo Theobald ha parlato di “rivoluzione della tenerezza” e di “mistica della fratellanza” per definire un magistero che assume prioritariamente il corpo dell’altro definito sempre fratello. Un pontefice che più volte ha invitato a “toccare la carne di Cristo” incontrata in ogni periferia esistenziale. Una “mistica della fratellanza” che significa spostare l’accento non sul giudizio ma sull’incontro dell’umanità nella molteplicità delle situazioni, siano o no conformi ai dettami della Chiesa. Quella stessa pluralità che troviamo nell’immagine del poliedro rispetto alla compattezza e unitarietà della sfera, come Bergoglio ha scritto nell’Evangelii gaudium.
Francesco è definito Papa post ideologico perché va oltre le fazioni e le divisioni, spiazzandole col metro di misura della misericordia. Egli stesso non ha voluto esportare il modello pastorale e teologico latino-americano, per andare a colonizzare in forma inversa l’eccesso di centratura europea e romana della Chiesa. E’ semplicemente uscito dallo schema del “modello di riferimento”, nella consapevolezza che la fede nel contemporaneo non può prescindere dalla pluralità delle forme d’inculturazione e da un nuovo modo di vedere il rapporto nord-sud nel mondo.
Così la rivoluzione della tenerezza avanza certamente per singoli passi. Però non sembra l’ingenuo incedere di un bonario parroco del mondo (come fu detto di Papa Giovanni XXIII), ma la cadenza di un vero e proprio “balzo innanzi”. Esattamente quello che volle Papa Roncalli con la convocazione del Concilio Vaticano II, la storica assise che segnò la svolta misterico-sacramentale di una Chiesa che preferisce affidarsi ai segni della presenza di un Dio clemente e misericordioso, piuttosto che alla solidità marmorea delle strutture.

E’ stato detto che la lettera Misericordia et misera è stata scritta di suo pugno, per un pontificato che già nello stemma prescelto aveva impresso il proprio programma: “Lo guardò con misericordia e lo chiamò”.
In un mondo in cui persino in occidente c’è chi patisce la fame più cruda, come ha magistralmente mostrato Ken Loach nel suo splendido film “Io, Daniel Blake” in una sequenza da crepacuore e da incorniciare come un’opera d’arte, in questo buio che tutto sembra avvolgere, sentire parlare di misericordia, tenerezza, salvezza, almeno viene la curiosità di ascoltarne le ragioni.

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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