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[Pubblicato il 14 ottobre 2016]

Dunque il 4 dicembre si vota al referendum per dire sì o no alla riforma costituzionale che porta la firma della ministra Maria Elena Boschi. Se sia o no una buona riforma, il fatto stesso che il fronte dei costituzionalisti italiani sia irriducibilmente diviso, sembra di per sé una prova che si poteva fare meglio. Anche le perplessità nel fronte dei favorevoli suonano come una conferma a questo ragionevole dubbio (per Massimo Cacciari, senza mezzi termini, è “una puttanata”).
Ulteriore prova è che su una quantità di questioni è possibile dire tutto e il suo contrario. Esempi?
Partiamo dal quesito scritto sulla scheda. Come dicono tanti: tendenzioso. Difficile negarlo. D’altra parte, è altrettanto vero che si tratta del titolo della legge. E allora di chi è la colpa se deputati e senatori che oggi sbraitano sul punto, non hanno posto la questione durante le sei letture del testo complessivamente fatte nei due rami del Parlamento?

Come scrive Massimo Franco (Corsera del 6 ottobre), è parso poi maldestro il tentativo di attribuirne la responsabilità alla Presidenza della Repubblica, quando una nota del Quirinale fa sapere che il quesito è stato “valutato e ammesso dalla Corte di Cassazione”.
Si può andare veloci sulla questione degli imbarazzi che ciascuna delle singolari alleanze prodotte da questa contesa può rilanciare nell’altrui metà campo: da una parte Renzi-Verdini, dall’altra D’Alema-Brunetta-Civati-Salvini …

Non meno controverso è l’impianto della riforma. Difficile dare torto a Marco Travaglio e Silvia Truzzi nel loro libro “Perché no”. Quando la sinistra si mise di traverso alla riforma costituzionale del 2005 dell’allora governo Berlusconi (poi bocciata dal voto popolare), quello che sorprende non è tanto una differenza di posizione fra due riforme oggettivamente diverse (quella cambiava la forma di governo: il presidenzialismo, questa formalmente no), quanto le ragioni che scongiuravano di non compiere quel passo. Ci fu un vero e proprio diluvio di parole, essenzialmente su due fronti.
Il primo: non si cambia la Costituzione, che è di tutti, a colpi di maggioranza, altrimenti ogni maggioranza si riscrive la sua. Il secondo: la Costituzione più bella del mondo non va stravolta (erano 53 gli articoli toccati nel 2005), ma basta modificare pochi e singoli articoli. “Semplicemente perché non ce n’è bisogno”, scriveva l’Unione del centrosinistra nel suo programma del 2006. Qualcuno si spingeva a limitare ulteriormente l’ambito di possibili incisioni, ritenendo sufficienti leggi ordinarie, oppure la sola legge elettorale.

Ora, lasciando stare la riforma del 2001 del titolo quinto, targata centrosinistra (avvenuta coi soli voti di quella maggioranza), effettivamente è difficile trattenere la domanda: cos’è cambiato oggi perché la stessa parte politica arrivi a riscrivere 47 articoli? Per inciso, La Civiltà Cattolica (28 maggio scorso) scrive della modifica di 43 articoli della seconda parte, uno della prima, abrogazione di quattro, cambio di tre leggi costituzionali e introduzione di 21 nuovi commi come disposizioni transitorie, ma non perdiamo il filo.

Altro esempio: c’è chi dice che il nuovo Senato, non più elettivo, anziché essere composto dai consiglieri regionali, oltre ai sindaci e ai senatori a vita nominati dal presidente della Repubblica (e qui c’è anche l’obiezione: cosa ci fanno nella camera delle autonomie locali?), avrebbe potuto essere formato dagli assessori delle giunte regionali. Così sarebbe stata più chiara l’impronta amministrativa e di governo dei territori, invece di quella politica (i consiglieri espressione dei partiti).
Sul punto hanno replicato il costituzionalista Stefano Ceccanti (Il Mulino 4/2016) e Carlo Fusaro (docente di diritto pubblico comparato, su Aggiornamenti Sociali 6-7/2016), che il modello Bundesrat tedesco non è stato possibile perché il Pd controlla 17 governi regionali su 21 e qualcuno avrebbe certamente puntato il dito sulla furbata politica. C’è poi l’obiezione del “combinato disposto” di riforma costituzionale e nuova legge elettorale (Italicum), vera e propria anticamera verso derive autoritarie. E’ stato il filo conduttore del faccia a faccia tra Gustavo Zagrebelski e il presidente del Consiglio nello studio di Enrico Mentana a La 7.

Si può capire che lo stesso Carlo Fusaro, apertamente schierato per il sì, eccepisca che in Gran Bretagna il premier è il risultato di un sistema maggioritario in collegi uninominali e che non rappresenti mai la maggioranza assoluta degli elettori (La Nuova Ferrara 2 ottobre). E’ storicamente successo che lì abbia vinto le lezioni un partito, nonostante quello sconfitto abbia avuto numericamente più voti. Eppure nessuno si sognerebbe di definire la Gran Bretagna una dittatura.
Diverso è se a smontare la tesi del “combinato disposto” è uno schierato dalla parte del no come il politologo Gianfranco Pasquino: “una eccessivamente temuta deriva autoritaria” (La Nuova Ferrara, stesso giorno). Si potrebbe andare avanti con gli esempi, come sul raffronto fra le nove parole dell’attuale articolo 70 della Costituzione e le 438 usate dal riformatore nel nuovo, ma la musica non cambia: ci sono ragioni da una parte e dall’altra.

Per tentare di capire di più (o per complicarci la vita), è utile spostare l’attenzione dal testo al contesto. Michele Salvati fonda la necessità di rendere le democrazie più veloci su alcuni “passaggi storici epocali” (Il Mulino 4/2016) e quella italiana, secondo lui, avrebbe bisogno di essere più rapida per tenere il passo coi tempi. Più terra terra, ma non meno interessante, il ragionamento di Bruno Manfellotto su L’Espresso (2 ottobre). “E se vince il no?”, si chiede l’ex direttore del settimanale.
Certamente c’è vita, come qualcuno dice, dopo il 4 dicembre in caso di sconfitta del sì.
Anzi, anche in questo caso ci sono costituzionalisti che rivolgono l’appello del no perché poi sarebbe complicato tornare su norme una volta rafforzate dal consenso popolare, ma ce ne sono altri che dicono l’opposto.

La bocciatura referendaria, questa la lettura, rende possibile lo scenario del “Renzi a casa”, peraltro innescato dall’iniziale personalizzazione che lo stesso presidente del Consiglio ha voluto dare alla questione. Lo vuole la destra e lo vuole quella parte della sinistra che ha visto il ritorno in grande stile di Massimo D’Alema, il cui programma del suo Pds nel 1994 prevedeva una riforma tremendamente simile a quella oggi definita una schiforma e a cui il partito della nazione fa lo stesso effetto della croce per Dracula. Ha detto Enrico Mentana che l’uditorio presente al lancio del comitato per il no dell’ex “lider Massimo” più che antirenziano è parso antidiluviano. Un’ipotesi tutt’altro che di scuola quella della fine dell’esecutivo se prevale il no, visto che sulla riforma il governo ci ha messo tutto il suo peso e che, come ha detto Ezio Mauro, è difficile pensare a Renzi disposto a fare l’anatra zoppa.

Qui le ipotesi si accavallano fra un governo di unità nazionale con lo scopo di fare una nuova legge elettorale, visto l’azzardo di andare a votare con l’Italicum per la Camera e il Consultellum (ossia il Porcellum falciato dalla Corte costituzionale) per il Senato rimasto tale e quale, con lo spettro di due maggioranze diverse e in mezzo le grida di M5S e Salvini che darebbero del traditore al presidente della Repubblica nel caso non se la sentisse di mandare tutti alle urne in queste condizioni.
Come se non bastasse, anche l’Italicum è sotto giudizio della Corte, la quale, non a caso, ha detto che deciderà dopo il referendum e in tanti non si aspettano buone notizie. Sarà anche per questo che dopo l’iniziale “va bene così” ora pare riaprirsi il discorso sul piano politico. Nel ritorno in pompa magna di sua maestà l’ignoto, è comprensibile che il capo dello Stato stia reclamando la messa in sicurezza dei conti pubblici (si approvi prima la legge di stabilità), senza contare che nel frattempo c’è una parola sussurrata con sospettosa insistenza: proporzionale.

Si fa strada la tentazione di un ritorno alla legge che, si dice, garantirebbe la più diretta rappresentanza degli elettori. Lo ha detto anche il costituzionalista Massimo Villone in un recente dibattito ferrarese timbrato cinque stelle: il proporzionale ha consentito l’approvazione di leggi italiane di grande contenuto civile. Il professore ha dimenticato di ricordare che è il sistema di voto che ha sorretto anche il pentapartito, dal patto del camper che inaugurò il Caf (Craxi-Andreotti e Forlani) nei primissimi anni ’80, fino alla deflagrazione di tangentopoli nei primi ’90. Un decennio e oltre, fra i cui frutti più velenosi ci ha lasciato in eredità l’everest di un debito pubblico fra i primi al mondo e che nessuno sa come abbattere.

Un sistema rivelatosi esattamente all’opposto della rappresentanza popolare, perché i partiti fecero e disfecero alleanze, maggioranze e governi, prescindendo dalle volontà di voto.
Esteso è quindi il fronte del no, scrive Manfellotto, “ma non ha un leader di riferimento e nemmeno una strategia condivisa e – conclude parafrasando Mao Tse Tung – grande è la confusione sotto il cielo del no”.

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

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