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17 Ottobre 2017

Riflessioni da Gad…

Tempo di lettura: 5 minuti


Il baretto nel parchetto dietro Grisù offre riparo al mio capo. Il sole oggi si è fatto sentire, anche se ormai siamo in autunno inoltrato. Due signori disquisiscono sulla partita a carte in corso, in un dialetto che fatico a comprendere, per poi voltarsi e vantarsi del fatto che il ferrarese sia molto simile al francese.
Oramai frequento il quartiere Giardino da un po’, ho imparato a riconoscere le facce di chi qui vive, circondato da un alone di mistero e ripugnanza da parte di chi questo posto sa solo dove sia collocato geograficamente. E’ un’altra Ferrara. Inutile soffermarsi sui problemi: dalla microcriminalità allo spaccio, fino alla prostituzione. Per queste cose ci sono giornali che abbondano di titoli. Purtroppo leggendoli ci si rende conto di una cosa: chi scrive spesso non è mai stato qui per più di 10 minuti. Tra piazza della Castellina e via Ortigara ci sono diversi diverticoli stradali che creano piccoli quartieri nel quartiere. Una volta che lo si frequenta ci si rende conto che qui la ghettizzazione riguarda tutti, stranieri e non. Questo è un quartiere di frontiera, una zona cuscinetto tra la Ferrara rinascimentale della corte estense e la stazione, il luogo dal quale si parte, o dove si arriva. Vivere qui non è facile, come non lo è in qualsiasi posto nel quale lo Stato punta sulla forza, e non sull’intelligenza.
Ora qui, oltre alle volanti, gira una camionetta mimetica: è l’esercito, vanto del ministro Minniti e degli adepti della Lega Nord. Da quando pattugliano queste strade non è cambiato poi molto: con questi metodi gli spacciatori semplicemente stanno più attenti, o cambiano quartiere. La domanda c’è, la risposta non mancherà. Sono le leggi di mercato.

Poche, invece, le iniziative di tipo sociale o culturale, per cercare di dare un’altra visione di questo quartiere maledetto: ci ha provato il Teatro Off, è nata una web radio, c’è il consorzio Grisù e altre iniziative, come i cittadini che hanno chiesto dodici bibliotecari invece che i dodici militari. Nemmeno a dirlo, passeggiando di fianco allo stadio di biblioteche nemmeno l’ombra, nel giro di cinque minuti però ho visto passare due volanti della polizia e una dei carabinieri. Dovrei sentirmi più tranquillo? Beh, non lo sono. Ne ho visti di posti dove si volevano risolvere i problemi sociali con la militarizzazione, semplicemente si è nascosto il problema, che è diventato più subdolo, meschino e addirittura più difficile da combattere. Mi sarei sentito più tranquillo nel vedere da queste parti una seria volontà di dare una nuova vita a questo quartiere con dei progetti sociali. Purtroppo anche la poca conoscenza di questi luoghi fa crescere quell’aria malfamata, come dire: a sentirti apostrofato tutti i giorni come il “cattivo” finisci per crederci. E anche questo giova a quelle sentinelle in bici che incontro, che mi chiedono di comprare dell’erba e che sanno di incutere un timore.
Il perché? Presto detto. Basta aprire un giornale e ci si rende conto di come i mass media vedano questo posto: un ‘Bronx’. Qui, stando alla stampa, orde di ‘immigrati’ passano le giornate a darsele di santa ragione, a tentare qualche stupro, spacciare chili di eroina. Anche se, a essere sinceri, i giornalisti dovrebbero erigere una statua a questo quartiere: basta scrivere Gad nel titolo e le letture raddoppiano (testato personalmente).

Parlare di qualcosa di così complesso come la realtà del Gad però comporterebbe averci passato almeno un mese all’interno, anche perché tra via Arianuova e via Darsena ci passano un po’ di metri e soprattutto cambiano del tutto le problematiche, gli stili di vita, addirittura le etnie predominanti. Ma credo siano pochi quelli che lo hanno fatto, forse nessuno. Questo è un problema culturale italiano: il lettore medio vuole i titoli a effetto, vuole leggere esattamente quello che i giornali scrivono. Ci vogliono notizie da gossip, non di certo approfondimenti, per potersi poi lanciare, magari sui social, in invettive di ogni tipo. Ma appunto, questo è un altro discorso. Io posso dire che frequento il Gad da almeno sei mesi e ancora non me la sento di giudicarlo, condannarlo e nemmeno di poter fare delle analisi, positive o negative che siano. Posso solo dire quello che ho visto: dalle nottate in mezzo a chi spaccia, alle giornate al bar dei cinesi, alle domeniche a vedere gli ‘spallini’ andare allo stadio. Un quartiere che ha dei problemi evidenti che non si vogliono risolvere, ma nascondere. Affrontarli probabilmente sarebbe troppo duro perché si dovrebbero fare i conti con anni di politiche fallimentari sul fronte dell’integrazione, avendo puntato sulla multiculturalità, invece che sulla multi-etnicità, creando questi quartieri ghetto, immense zone dove il ‘degrado’ sembra l’unica via percorribile. Io continuo a starci, non voglio arrendermi alle apparenze, darla vinta a chi condanna senza conoscere, ascoltando anche chi qui ci vive e si sente esasperato. Sì perché a leggere sempre che qui c’è solo marcio, inizi a vederlo davvero, e dappertutto. L’unica cosa certa è che questa non sembra Ferrara e certe volte, guardando la camionetta fermare gruppetti di ragazzi subsahariani, mi sembra di stare in uno di quei paesi in guerra dell’Africa, dove i nostri militari svolgono lo stesso servizio d’ordine per le strade. Ma poi mi volto e mi ricordo che questa è Ferrara, qui non ci sono i signori della guerra, qui potremmo affrontare le cose diversamente, qui una speranza potremmo averla, e darla. Ma non sono ottimista: è più facile scrivere e far paginoni su un episodio di cronaca, che su 100 piccole iniziative quotidiane buone. E’ più facile condannare, escludere, arrestare, esiliare, invece che impegnarsi, costruire progetti duraturi.

Perché del Gad si è sempre scritto tutto, tranne che del quotidiano, della giornata – la gran parte – senza zuffe tra bande, senza rapine. La quotidianità dei bar con la gente che chiacchiera e sorride, dei ragazzi che al terzo giro di gip dell’esercito divertiti dicono “alla prossima prendiamo il tempo”, delle famiglie al parco. Il quotidiano fatto di mille sfaccettature. Qui non comanda ancora la violenza, qui può ancora vincere la legalità e soprattutto la cultura. Ed è proprio per questo che non sono ottimista: la gente non vuol sentire di cose ‘normali’, in una zona che di normale ha davvero poco. E pian piano forse anche io mi convincerò di esser diventato il frequentatore di un quartiere malfamato.

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Jonatas Di Sabato

Giornalista, Anarchico, Essere Umano

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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