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di Loredana Bondi

Per capire a che punto siamo oggi in materia di rapporto fra politiche pubbliche e interessi collettivi, non posso non riferirmi, soprattutto per esperienza diretta, al nesso esistente fra politica ed educazione. Credo che questo sia, infatti, uno dei temi ineludibili per declinare un futuro che abbia senso in termini di libertà e democrazia, a livello individuale e collettivo.
Lo sviluppo di una società futura consapevolmente democratica e interculturale è fortemente subordinato alla capacità della politica pubblica e della comunità di svolgere un ruolo educativo diffuso e di rendersi co-responsabili credibili del benessere sociale .

Sebbene il rapporto fra educazione, politica e comunità sia un tema tradizionale delle scienze pedagogiche, nell’attuale contesto socio economico e culturale credo sia importante riaprire un confronto che porti al centro la funzione politica dell’educazione e la funzione educativa della politica.
Abbiamo bisogno di politici più consapevoli e competenti rispetto al ruolo e alle responsabilità che assumono, proprio in ragione dei pubblici interessi che la loro azione deve perseguire.
La grave situazione economico-sociale è oggi divenuta l’elemento centrale che alcune amministrazioni invocano, per giustificare l’incidenza sui bilanci del sistema educativo e scolastico rispetto a problematiche ben più complesse che attagliano il paese. Tutto è definito in termini di ‘costi’, di entrate e di spese. Questa visione ‘utilitaristica’ dell’esistenza sta mettendo in serie difficoltà non solo il sistema dei servizi rivolti all’infanzia, ma tutti i sistemi di welfare locale, a livello di gestione diretta del pubblico, come del privato sociale.
In questa ottica presso diversi Comuni i servizi di nido e di scuola dell’infanzia sono individuati come ‘servizi in perdita’, quindi da ridurre e/o addirittura chiudere, perché non più sostenibili.
Senza dubbio i servizi educativi non sono mai stati un business in grado di remunerare l’investitore, perché il vero investimento in tali servizi ha piuttosto una resa in termini di capitale sociale e quindi la funzione di chi li gestisce non può che avere un interesse pubblico.
La vita sociale, politica e culturale del Paese sembra ridotta a seguire i soli principi economici, come preminenti su tutti gli aspetti della vita umana e questa visione incide sulla coesione sociale, oltre che sulla tenuta stessa dei servizi, sulla loro importanza in termini di offerta educativa, tanto da metterli seriamente a rischio. Questa situazione coincide con una situazione di indifferenza diffusa, di disagio e quasi di straniamento dei cittadini , a cominciare dai più giovani, che affrontano il problema solo se coinvolti in prima persona.

Certo non è così dovunque: quando l’esigenza di offrire questi servizi è ancora sostenuta da una seria programmazione e progettazione sociale, i Comuni cercano di gestire la crescita di un sistema integrato pubblico-privato dell’offerta, sostenendo il privato sociale qualificato che si impegna sul territorio nella direzione di una gestione coerente con la ‘funzione pubblica’ dell’educare, condividendone obiettivi, contenuti, metodi e finalità. Di contro, per altre amministrazioni il ‘costo’ diventa elemento determinante e non procedono alla verifica del ‘bisogno generale’ e all’effettivo interesse collettivo, per cui ricorrono all’analisi del problema solo sul piano del profilo tecnico amministrativo e la più variegata contrattualistica, che porta in definitiva all’ affidamento esterno o addirittura alla scelta della dismissione dei servizi medesimi.
Probabilmente prima della completa dismissione pubblica, dovrebbero essere valutati i criteri di una governance seria del sistema integrato dei servizi, partendo da una co-progettazione, da una verifica dell’effettiva ricaduta dei servizi sulla comunità, dalla struttura di procedure comuni di selezione/formazione del personale, di analisi dei criteri di valutazione del ‘ben-essere’ prodotto sul contesto collettivo e individuale, della valutazione dell’offerta da parte dei cittadini che ne fruiscono.
Non è certamente un caso il fatto che nell’Ordinamento delle autonomie locali il Comune venga definito: “l’Ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo”. Ancor oggi sembra assolutamente importante ribadire che spetta al Comune essere il punto preciso di riferimento e controllo delle politiche sociali ed educative del proprio contesto territoriale, sia perché l’erogazione dei servizi pubblici è storicamente riconducibile agli Enti locali, sia perché il Comune dovrebbe avere la capacità, gli strumenti e la giusta autorevolezza per confrontarsi, valutare e rispondere ai bisogni dei propri cittadini. Un Comune deve assumere un ruolo di regia, fondamentale per il carattere di territorialità che hanno le politiche sociali ed educative.
L’esternalizzazione dei servizi, nell’approccio alle politiche educative da parte di alcuni attuali amministratori locali, rischia di essere intesa piuttosto come dismissione e rinuncia a praticare una vera governance, dato l’affievolirsi di una visione complessiva a partire dai diritti dell’infanzia e quindi di un venir meno di un interesse pubblico.

Senza dubbio occorre conoscere a fondo, e senza preclusioni di sorta, quali siano realmente gli indicatori che connotano i benefici della esternalizzazione dei servizi, soprattutto quando si parla di gestione di servizi alla persona, com’è altrettanto importante rilevarne i limiti.
Come benefici vengono indicati: l’aumento dell’efficienza con riduzione dei costi, perché si ha più competizione e specializzazione sul mercato; la possibilità di ovviare alla carenza di alcune professionalità con innalzamento della qualità dei servizi; l’attenuazione delle logiche burocratiche con grosso sgravio per la P.A., il superamento di alcune rigidità dovute al blocco delle assunzioni attraverso il reimpiego e la riqualificazione del personale e soprattutto, l’opportunità di concentrare attenzione e risorse su attività ritenute più strategiche.
I limiti della completa esternalizzazione e dismissione dei servizi , può configurare l’aumento del potere degli organi politici a scapito di quello manageriale nelle P.A., con possibili pressioni lobbistiche per l’assegnazione dei contratti e conseguente aumento della spesa pubblica, la possibile mancanza di una seria applicazione di un codice etico nei servizi esternalizzati. A ciò si aggiungano i costi relativi alle diverse procedure contrattuali, la possibile riduzione e demotivazione del personale pubblico con “impoverimento” di competenze intellettuali e professionali specifiche e possibile confronto all’interno dei servizi.
In tale direzione si può paventare una vera delega di competenze proprie degli Enti locali al privato, che si può tradurre, fra l’altro, in mancato controllo sugli esiti della conduzione dei servizi e relativa deresponsabilizzazione politica rispetto a compiti specifici di legge.
La completa esternalizzazione dei servizi e, soprattutto, la mancanza di una valutazione concreta della qualità dell’offerta, portano alla mancanza di contatto con le famiglie, per comprenderne bisogni e aspettative, oltre al grave rischio di perdita di contatto con la comunità. Senza dubbio la mancanza di confronto col territorio può riservare una perdita di autorevolezza e riconoscimento politico, utili alla gestione più generale della vita pubblica.
Un serio impegno etico e politico dell’Ente locale verso le giovani generazioni richiede che amministratori e tecnici e cittadini, debbano approfondire le interconnessioni fra educazione e politica, per capire il valore reale delle scelte da fare.
Molte sono le esperienze consolidate di gestione condivisa del sistema educativo e politico da annoverarsi come conquiste sociali storicamente riconosciute, così come le trasformazioni socio-culturali che ne sono seguite. Questo dà conto del grande lavoro che in alcune aree del nostro Paese si è attuato proprio attraverso una politica condivisa dei servizi educativi per l’infanzia , capaci di farsi agenti culturali e politici, tanto da determinare, come sosteneva il grande pedagogista Loris Malaguzzi, “un profondo mutamento antropologico”.

Una comunità responsabile dal punto di vista politico e sociale  si prende cura del proprio futuro, innanzi tutto curando l’educazione delle nuove generazioni e ponendo questo compito fra le priorità del bene comune e dell’interesse collettivo.
Sulla rivista MicroMega già qualche anno fa (2009) il sociologo appena scomparso Zigmund Bauman in una conversazione con Mariapaola Leporale dal titolo “Per un welfare planetario” affermava: “raggiungere la sicurezza esistenziale – ottenere e mantenere un legittimo e dignitoso posto nella società umana ed evitare la minaccia dell’esclusione – è ora un compito lasciato alle abilità e alle risorse individuali di ciascuno; il che significa essere esposti a rischi enormi e soffrire la straziante incertezza che questi compiti inevitabilmente comportano. La paura che lo Stato sociale aveva promesso di estirpare è ritornata con tutta la sua forza. La maggior parte di noi teme oggigiorno la minaccia, seppur vaga, di rimanere escluso, di risultare inadeguato alla sfida, di essere mortificato, umiliato e di vedere negata la propria dignità. […] Sia la politica, che il mercato dei beni di consumo sono bramosi di trarre vantaggio dalle paure diffuse e minacciose che saturano la società dei giorni nostri. […] Lo Stato sociale è stato l’ultima rappresentazione moderna dell’idea di comunità: vale a dire di una reincarnazione istituzionale di tale idea nella sua forma moderna di una «totalità immaginata» – intrecciata con la consapevolezza e l’accettazione di una dipendenza, di un impegno, di una lealtà, di una solidarietà e di una fiducia reciproche.
I diritti sociali sono l’espressione tangibile, la manifestazione empirica di quella totalità immaginata che lega la nozione astratta alle realtà quotidiane e radica l’immaginazione nel terreno solido dell’esperienza quotidiana di vita. Questi diritti attestano la verità e il realismo della fiducia tra le persone nella rete di istituzioni condivise che danno appoggio e validità alla solidarietà collettiva. L’«appartenenza» si traduce in fiducia nei benefici che derivano dalla solidarietà umana e dalle istituzioni che in questa solidarietà hanno origine e che promettono di proteggere. […] Attualmente, tuttavia, sotto la pressione dei mercati globali, abbiamo imboccato la strada opposta: le dimensioni collettive – società e comunità, reali o anche solo immaginate – sono sempre più assenti. L’autonomia individuale sta espandendo velocemente il suo raggio d’azione, sotto il quale ricadono responsabilità sempre nuove, che un tempo erano sotto il dominio dello Stato e che ora sono state cedute («sussidiarizzate») alla cura individuale” .
Allora possiamo o dobbiamo riparlare di politiche pubbliche , per tutelare gli interessi collettivi?

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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