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ELIOGABALO – Eliogabalo (o Elagabalo, o Marco Aurelio Antonino, o Vario Avito Bassiano), di nobile famiglia siriana, cugino di Caracalla, divenne imperatore di Roma nel 218. Aveva 14 anni, mi pare sia da ricordare come il più giovane imperatore dell’Urbe. Troppo giovane. Sua madre lo guidava bene e, tutto sommato, oggi possiamo dire in modo non del tutto convenzionale, visto che il ragazzino è stato, nella storia del nostro Paese, il governante più democratico tra quanti lo avevano preceduto e quanti lo avrebbero seguito. Quando, poverino, lo innalzarono alla massima carica dell’impero più potente del mondo erano in piena effervescenza le lotte per il potere tra Occidente e Oriente, ma lui pensò che fosse suo dovere togliere un po’ di boria lussureggiante ai romani potenti, boria e danaro, per riequilibrare la società e donare alle masse popolari qualcosa del maltolto ai signori. Ma non si limitò soltanto a questo: il ragazzino imperatore pensava in grande, pensava addirittura a uno stato precomunista, limando la proprietà privata e rafforzando quella statale, insomma cercando di realizzare, sia pure con forme paternalistiche, un proto socialismo di stato, provvidenze sempre crescenti (humiliores) per le classi meno abbienti, mentre l’imprenditoriato e la grande proprietà privata venivano sottoposti a una pesante pressione fiscale. Una cosa del genere in Italia? Figuriamoci! Il ragazzino, dopo quattro anni di follie sociali venne ucciso con sua madre, sì che non fosse più possibile per lei mettere al mondo un altro sciamannato. E così è stato fino a oggi, se un dittatore populista c’è stato a Roma in poco tempo si è trasformato in monarchico baciapile. Crediamo nella democrazia? Allora informiamoci sull’etimologia della parola: demos, popolo, e kratia, potere, potere al popolo. Ma quando mai?

FOIBE – Giustamente è stata celebrata giorni fa una giornata della memoria dedicata alla tragedia delle foibe, quei pozzi carsici entro i quali venivano gettati, vivi o morti, i nemici, ma non soltanto gli italiani, come una storia distorta malandrina ci insegna: gli assassini non sono stati soltanto gli slavi finito il secondo conflitto mondiale, le foibe, intese come sepolcri, le abbiamo inventate noi italiani alla fine della prima guerra mondiale, quando la follia fascista ci portò a compiere dei massacri mai visti. Bisognava “italianizzare” le popolazioni slave, costringerle a parlare italiano, a cambiare il proprio nome, a pensare italiano, altrimenti… giù nelle foibe. Un poetastro triestino di sana fede fascista coniò anche il verbo da usare in questi casi: “infoibare”, verbo che è rimasto nel linguaggio locale. Non meravigliamoci, gli italiani ne hanno combinate di tutti i colori là dove pensavamo che Dio ci avesse fatto padroni, chi non crede vada a leggersi la storia delle nostre colonie, a cui molto modestamente ho contribuito avendo raccolto in Somalia, in Etiopia, in Eritrea le testimonianze dei vecchi, gli ultimi ad aver subìto la nostra indecorosa ferocia (non la racconto qui), ferocia che abbiamo sperimentato dovunque siamo arrivati. L’abbiamo esportata in America, abbiamo insegnato come si fa a “incaprettare”, verbo che i dizionari della nostra bellissima lingua colpevolmente si dimenticano di inserire tra le loro voci, incaprettare significa prendere un uomo nostro nemico, legarlo mani e piedi dietro la schiena, tagliargli i testicoli, ficcarglieli in bocca e farlo morire così; oppure fare al nostro nemico il piedistallo, cioè mettere il prigioniero ritto con i piedi dentro un secchio di calce, lasciare che la calce si solidifichi e poi gettare questa statua umana in mare; oppure immergere, sempre il nostro prigioniero, dentro una vasca di acido solforico, lentamente, molto, molto lentamente… la fantasia italiana non conosce limiti. Gli jiadisti? Dilettanti, la mafia non li prenderebbe mai in considerazione. Noi siamo i veri maestri della crudeltà più spietata. Viva l’Italia!

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Gian Pietro Testa


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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