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Oltre l’idea di destra e sinistra, al di la delle appartenenze partitiche e religiose, in Italia ci sono due “partiti”, non organizzati ma fieramente contrapposti, la cui esistenza era semplicemente impensabile fino a pochi decenni fa: quello pro-migrazione (Ppm) e quello contro-migranti (Pcm).
Più il flusso migratorio cresce, più le interazioni tra residenti e migranti aumentano, più i dati (per chi sa cercarli e tenta di interpretarli con onestà intellettuale) mostrano le dimensioni del problema e i suoi possibili sviluppi, più questa polarizzazione diventa forte e si estende anche ai gruppi sociali solitamente più tiepidi. Saranno probabilmente anche questi due “partiti” a decidere, non solo l’esito delle prossime elezioni nazionali, ma anche il futuro stesso dell’Europa. Così, mentre i media e i politici progressisti mainstream (che si rifanno al primo) fanno di tutto per nascondere e minimizzare le reali dimensioni del fenomeno presentandolo come un destino civile e un’opportunità, le cosiddette destre populiste (che si rifanno al secondo) fanno di tutto per metterne in evidenza gli aspetti più inquietanti, i torpidi presupposti e gli squallidi retroscena. Entrambi ovviamente mentono, omettono, tacciono ed evidenziano in funzione dei loro scopi; entrambi tuttavia possono vantare qualche buona ragione a sostegno delle rispettive tesi. Le sfumature al loro interno sono complesse e vanno dall’accettazione incondizionata al rifiuto incondizionato passando attraverso ogni tipo di gradazione.

Malgrado queste gradazioni i due schieramenti sono decisamente diversi.
Il primo ha dalla sua le grandi dichiarazioni sui diritti umani, il pensiero politicamente corretto le leggi internazionali che tutelano giustamente richiedenti asilo e rifugiati; si avvale di reti di sostegno capillari e molto organizzate che possono contare su attivisti preparati, su volontari e professionisti della cooperazione; conta sul contributo delle Chiese e in particolare della Chiesa Cattolica, sulla forza delle Ong italiane e straniere, sull’enorme numero di associazioni che difendono i diritti umani; fa leva sul mondo composito delle organizzazioni e cooperative impegnate direttamente nell’accoglienza che, creando lavoro in un periodo critico anche dal punto di vista occupazionale, sono in grado di mobilitare grandi quantità di risorse (si pensi a soci, cooperatori e volontari) e quindi orientare cospicue dosi di consensi e di voti.
La narrazione del Ppm è quella del rifugiato, che fugge da violenze, dittature, guerra e miseria, in cerca di un luogo più sicuro ed ospitale; l’icona è il bimbo solo e sofferente, la giovane madre che abbraccia il figlio denutrito.

Il secondo è forse numericamente più diffuso ma decisamente meno organizzato; raccoglie vasti consensi nella popolazione economicamente più fragile, svantaggiata e meno acculturalizzata, quella impoverita dalla crisi, quella costretta suo malgrado a vivere fianco a fianco con i problemi direttamente connessi ad un’immigrazione percepita come caotica ed imposta dall’alto con la forza; può contare sull’acuto senso di insoddisfazione che deriva dal sentirsi trattati peggio a casa propria rispetto ai nuovi venuti, sulla paura del diverso, sul senso di rabbia ed impotenza di chi si sente escluso e non considerato.
La narrazione del Pcm è quella del clandestino, migrante irregolare e delinquente, attirato dalla possibilità di vivere da consumista, nullafacente e assolutamente disinteressato al lavoro; l’icona è il giovane in ottima forma, che stazione nei luoghi compromessi delle città, sempre dotato di cuffie e telefonino, che si fa beffe dell’italiano residente e lavoratore.
La retorica usata per rappresentare queste percezioni è decisamente poco raffinata, più rozza e assai più terra terra della precedente, stentando essa a trovare una rappresentanza intellettuale capace di tradurre concettualmente questo profondo disagio in buoni argomenti.

L’esistenza e la contrapposizione tra i due fronti assume aspetti differenti se la si guarda dall’interno, dall’Italia, o dall’esterno, in un’ottica internazionale; in questa seconda prospettiva essa si configura come uno spazio di pressione che può essere utilizzato da soggetti esterni interessati a provocare, usare o indirizzare strategicamente il fenomeno per i propri scopi: non solo stati sovrani ma anche coalizioni, multinazionali, gruppi finanziari e Ong partecipano a questo tipo di gioco strategico, reso possibile dalla pluralità di interessi presenti e dalla presenza di coalizioni interne di opposto orientamento. A questo tipo di azione le democrazie occidentali sono particolarmente esposte e il nostro paese, per posizione geografica e spessore politico, rischia di esserne molto vulnerabile, dovendo comunque mantenere una reputazione nella comunità internazionale e in particolare in quella europea.
Secondo la prospettiva interna invece, l’esistenza dei due “partiti” pone un forte problema di fiducia nei riguardi delle elites dirigenti che, proprio su questo, rischiano di essere esposte al costo dell’ipocrisia, ben visibile nel caso i cittadini possano cogliere forti discrepanze tra le dichiarazioni retoriche dei politici e l’esperienza personale maturata nella vita quotidiana.

Ovviamente in questo scontro, che è innanzitutto mediatico, l’esercizio del buon senso è escluso: meglio dunque non discutere francamente sulle radici del problema superando stereotipi e luoghi comuni, meglio rimanere arroccati sulle proprie posizioni e non ragionare insieme per trovare soluzioni condivise. Meglio l’insulto della ricerca dell’intesa e del tentativo di comprendere le opposto posizioni, meglio insomma non approfondire correndo il rischio di scuotere i rispettivi atteggiamenti ideologici ben interessati. Ed effettivamente il buon senso sembra mancare anche nella oculata gestione strategica del fenomeno e nelle norme che dovrebbero regolarlo: mancanza di trattati chiari che consentano il rimpatrio in seguito a respingimenti ed espulsioni; obblighi burocratici che spostano a forza migranti ignari in comunità altrettanto ignare, quasi gli uni e le altre fossero composti non da persone ma ma merci inanimate, che si possono spostare a piacere; decine di migliaia di giovani sani e in salute costretti a passare nell’ignavia e nell’ozio lunghi periodi in attesa che qualcuno decida la loro sorte. Spesso il buon senso pare mancare nelle modalità di comunicazione adottate dai media, che non di rado sembrano fatte apposta per acuire l’astio mettendo l’accento sulle emozioni che di volta in volta possono colpire di più l’uditorio, a prescindere dalla realtà dei fatti e, soprattutto, dalla cornice entro la quale essi acquisirebbero senso. E infine il buon senso sembra mancare anche in molte organizzazioni (non tutte per fortuna) che il fenomeno gestiscono sul campo, incapaci di trovare modi di coinvolgere e far lavorare gli ospiti in una prospettiva comunitaria, rendendo utile e proficuo per tutti il loro soggiorno.
Certo, il buon senso c’è ancora ed ogni tanto si vede, ma troppo spesso tace, per timore di infrangere la barriera del politicamente corretto e non incorrere negli strepiti degli estremisti e degli esaltati di entrambe le parti.

In questo panorama il governo italiano si trova (e si troverà sempre più) di fronte a veri dilemmi: indirizzare risorse finanziarie limitate ed impegno per la cosiddetta accoglienza o intervenire a vantaggio dei cittadini italiani più impoveriti dalla crisi? Puntare più sulla salvaguardia della reputazione internazionale o più sulla fiducia dei cittadini elettori? Favorire uno dei due “partiti” o recuperare il buon senso uscendo dalla retorica e dall’ipocrisia? Subire la migrazione o usare l’enorme numero di migranti che arrivano come arma per negoziare risorse ed obiettivi con la Comunità Europea? Qualsiasi scelta, a prescindere dalla colorazione politica dei futuri governi, scontenterà una delle parti in gioco, con ovvie ripercussioni sulla fiducia, sul voto e sulle modalità attraverso le quali i media cercheranno di influenzare l’opinione dei cittadini. Intanto neppure la reazione pubblica che sembra diventare sempre più ostile e guidata dalla paura, neppure la crescente agitazione tra i migranti stessi, sembra riuscire a rompere un sistema di politiche pieno di contraddizioni, basato su presupposti irrealistici ed incapace di governare seriamente il fenomeno. Dallo stallo non si esce con le solite ricette neoliberista ma solo con un bagno di realtà, molta innovazione sociale, il coinvolgimento dei cittadini nelle scelte e un ritorno al sano buon senso. Per ora si può solo notare che i partiti ufficiali stanno lanciando le grandi manovre retoriche per conquistare gli elettori dei due schieramenti in vista delle prossime elezioni.

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Bruno Vigilio Turra

È sociologo laureato a Trento. Per lavoro e per passione è consulente strategico e valutatore di piani, programmi e progetti; è stato partner di imprese di ricerca e consulenza e segretario della Associazione italiana di valutazione. A Bolzano ha avuto la fortuna di sviluppare il primo progetto di miglioramento organizzativo di una Procura della Repubblica in Italia. Attualmente libero professionista è particolarmente interessato alle dinamiche di apprendimento, all’innovazione sociale, alle nuove tecnologie e al loro impatto sulla società. Lavora in tutta Italia e per scelta vive tra Ferrara e le Dolomiti trentine.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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