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Migrazioni. Il problema inizia già con la parola, con i vocaboli che si usano per descrivere e comprendere il fenomeno, conoscerlo e quindi renderlo meno inquietante e minaccioso. Migranti, extracomunitari, immigrati, emigrati politici, emigranti, migranti economici, sfollati, migranti irregolari, rifugiati, richiedenti asilo, profughi, e ancora: esuli, fuoriusciti, fuggiaschi, sfollati. La confusione linguistica è notevole e le guardie ideologiche del politicamente corretto sono già pronte ad imporre l’uso di nuovi termini obbligatori, lanciando il bando di proscrizione per quelli non più consoni alla neolingua. Intanto, l’uso di certe parole piuttosto che altre, resta un atto politico che svela ideologie, pregiudizi e a volte pura e semplice ignoranza: ognuna di queste parole richiama emozioni, sentimenti, categorie concettuali che di volta in volta avvicinano o allontanano, implicitamente approvano o respingono. In tale situazione una piccola ricerca, vocabolario alla mano, si rivela particolarmente utile.
Migrante e una categoria generica che indica una popolazione in transito verso nuove sedi, gente che passa, che è in movimento verso qualcosa.
Migrante economico indica tutte quelle persone che si spostano per motivi economici ovvero in cerca di lavoro, opportunità di reddito, possibilità di consumo e accesso ai benefici offerti dal paese di destinazione.
Migrante irregolare è colui che, per qualsiasi ragione, entra in un paese senza possedere i regolari documenti di viaggio (“sans papier”) e senza poi sanare questa condizione di inadeguatezza amministrativa.
Immigrato è un migrante che si è trasferito in un altro paese, colui che raggiunge il luogo di destinazione e qui si stabilisce.
Emigrato al contrario, è chi è espatriato temporaneamente o definitivamente; è insomma il migrante visto dal punto di vista della società di partenza anziché di quella d’arrivo.
Extracomunitario è un termine che indica qualsiasi persona che non sia cittadina di uno dei ventotto paesi membri dell’Unione Europea.
Richiedente asilo è una categoria giuridica che riguarda le persone che hanno presentato domanda per ottenere asilo politico in un paese estero. Il richiedente asilo diventa entro un lasso di tempo definito qualcos’altro (ovvero rifugiato, migrante economico, migrante irregolare) nel momento in cui ottiene una risposta ufficiale e definitiva alla sua domanda di asilo.
Rifugiato è un’altra categoria giuridica (art. 1 Convenzione di Ginevra, 1951) che si riferisce a persona per la quale si è accertato, tramite un’apposita procedura, il diritto ad avere asilo. Con ciò si riconosce ufficialmente che tale persona è stata costretta a lasciare il proprio paese a causa di persecuzioni per motivi di razza, religione, nazionalità, opinioni politiche, appartenenza a gruppi sociali particolari e, a causa di questo, non può tornare nel proprio paese.
Profugo invece è un termine generico che indica chi lascia il proprio paese a causa di persecuzioni, guerre o catastrofi naturali; è dunque termine adatto a definire esodi di massa come quello dei siriani che fuggono dalla guerra.
In un campo e in un periodo storico dove le opinioni sembrano valere più dei fatti, la precisione linguistica dovrebbe essere fondamentale per discriminare e comprendere; purtroppo però la distinzione tra questi termini non è sempre semplice e tantomeno lo è la chiarezza a livello di linguaggio comune. In tale situazione capita di sentire definiti come rifugiati tout court perfino quanti, non ancora riconosciuti, sbarcano ormai quotidianamente sulle coste Italiane; capita di vedere erroneamente etichettati dei rifugiati come migranti economici e così via.

Migrazioni. Il problema si complica quando dai concetti si passa ai numeri tentando di quantificare un fenomeno che ormai dura da decenni; non a caso, malgrado il tema sia trattato quotidianamente da tutti i media, le percezioni delle persone divergono spesso profondamente dai dati ufficiali. In particolare, il fenomeno sembra ridursi, nelle opinioni di molti, al massiccio e drammatico flusso di persone che approdano quotidianamente sulle coste Italiane o che dalle navi italiane vengono raccolti in mare. In realtà questa è solo la parte più evidente di un sistema migratorio assai più vasto e complesso, per molti versi ignoto al pubblico. Ed anche questo tipo di flusso mediterraneo costantemente esposto alle telecamere dei media è tutt’altro che chiaro.
Per tentare di chiarire le cose bisogna innanzitutto distinguere chiaramente tra i flussi migratori rivolti verso l’Europa nel suo insieme e quelli che arrivano in Italia, posto che la composizione dei due insiemi è assolutamente diversa. Nel 2016 i paesi di provenienza più rappresentati su scala europea sono stati Siria (23%), Afghanistan (12%) e Nigeria (10%).

Diversissima è la situazione in Italia (vedi tabella) che vede per lo stesso anno una assoluta prevalenza di popolazioni sub sahariane con ben il il 20,7% di persone proveniente dalla Nigeria (il paese con il PIL più alto dell’Africa: e la cosa dovrebbe far molto riflettere) e 11,4% dall’Eritrea.
Per il solo flusso migratorio relativo agli sbarchi che interessano l’Italia passando per il Mediterraneo, i dati consultabili sul sito del Ministero dell’Interno (Dipartimento per le libertà civili e le migrazioni) sono i seguenti: 41.925 (2013), 170.100 (2014), 153.842 (2015), 181.436 (2016) per un totale registrato ufficialmente di 547.303 persone approdate sulle coste italiane negli ultimi 4 anni. Vi è indubbiamente qualcosa di perverso, di freddamente burocratico nel parlare di un simile flusso di esseri umani attraverso semplici statistiche impersonali. Tuttavia un analisi anche molto semplice di quei numeri fa emergere una realtà piuttosto sconcertante sulla quale riflettere per inquadrare il fenomeno della cosiddetta accoglienza e le problematiche che genera a livello locale. Dietro ai numeri non ci sono solo aspettative e idee personali, calcoli, motivazioni e sofferenze, ma ci sono tradizioni, appartenenze etniche e religiose, culture, spesse volte assolutamente diverse dalla nostra (per fortuna) e non interpretabili semplicemente attraverso le nostre categorie di uso comune. Basti pensare, ad esempio, al modo di intendere il lavoro, il ruolo femminile e le regole della convivenza civile.

Un secondo aspetto ampiamente sottaciuto ma importantissimo è la composizione di genere. Lo sanno benissimo i cooperatori internazionali più avveduti (pochi) che hanno capito che in Africa, per attivare progetti con qualche speranza di successo, bisogna necessariamente lavorare con le donne e su piccola scala. Quanto sono dunque le donne in questo flusso di sbarchi? Sicuramente dipende molto dai paesi e dalle culture di provenienza ma i dati sono piuttosto sorprendenti rispetto alla percezione comune. Secondo il sito dell’UNHCR solamente il 13,2 % degli sbarcati sono femmine mentre i minori sono il 15,6%; di questi ultimi secondo Unicef Italia il 91% sono non accompagnati di eta compresa tra i 15 e i 17 anni, quasi tutti maschi in prevalenza provenienti da Eritrea, Nigeria, Gambia ed Egitto. Secondo il sito openmigration.org le donne arrivate nel 2016 provengono per oltre il 40% dalla Nigeria (11% Eritrea).

Un ultimo aspetto molto importante riguarda l’età, fattore importantissimo in un paese che ha da anni raggiunto il proprio limite demografico e sta dunque invecchiando; un recente studio condotto dall’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) su un campione di oltre 1000 soggetti adulti attualmente ospitati in centri di accoglienza (CARA), stima un’età media intorno a 27 anni, mentre il 90% dei migranti ha meno di 30 anni.
La sintesi è questa: almeno 80% degli sbarchi in Italia degli ultimi anni è rappresentato da giovani maschi, in età di servizio militare e di lavoro, rare le famiglie assolutamente minoritarie le donne. Anche a prescindere da ogni considerazione ulteriore che possa riguardare il numero di soggetti che avranno diritto allo status di rifugiati, anche a prescindere dal modo con cui queste persone potranno guadagnarsi da vivere in una nazione con un tasso di disoccupazione giovanile che raggiunge picchi del 40%, anche facendo finta di non vedere i profondi contrasti che esistono tra le etnie migrate e sempre più spesso con gli indigeni, non si può non vedere che la situazione è già socialmente esplosiva, che richiede cura particolare e che implica, per evitare il peggio, scelte profonde, coraggiose, innovative ed eque nei confronti di tutti i cittadini.
E intanto, sempre secondo i dati del Ministero e in attesa degli accordi con la Libia, nei primi due mesi del 2017 gli sbarchi sono già aumentati del 57% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente: erano nello scorso anno 9.101 sono oggi 14.319.
Buona fortuna, Italia

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Bruno Vigilio Turra

È sociologo laureato a Trento. Per lavoro e per passione è consulente strategico e valutatore di piani, programmi e progetti; è stato partner di imprese di ricerca e consulenza e segretario della Associazione italiana di valutazione. A Bolzano ha avuto la fortuna di sviluppare il primo progetto di miglioramento organizzativo di una Procura della Repubblica in Italia. Attualmente libero professionista è particolarmente interessato alle dinamiche di apprendimento, all’innovazione sociale, alle nuove tecnologie e al loro impatto sulla società. Lavora in tutta Italia e per scelta vive tra Ferrara e le Dolomiti trentine.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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